di Enrico Ganz

 

L’attuale pandemia causata dal virus SARS-CoV-2 ha ravvivato l’attenzione per le malattie infettive in un’Europa che negli ultimi decenni è stata tormentata principalmente dalle patologie oncologiche, dopo aver sconfitto o perlomeno ridimensionato temibili morbi, tra i quali spiccano la peste, il colera, la difterite, il vaiolo, la poliomelite, la tubercolosi, la malaria, l’AIDS e le epatiti di tipo B e C. Laddove i farmaci e la prevenzione non sono stati in grado di fornire aiuto contro gli agenti infettivi, il nostro sistema immnunitario nella sua variabilità genetica ha consentito alla specie umana di resistere comunque a flagelli quali la peste, il colera, il vaiolo, la poliomelite, la malaria e la tubercolosi. Prima del XX secolo i rimedi erano in effetti piuttosto modesti e l’ammalato doveva fare affidamento al suo sistema immunitario e al suo stato nutrizionale. Di maggior utilità potevano essere i cosiddetti metodi preservativi, che appaiono ancora oggi complessivamente ragionevoli: mantenere tranquillità d’animo, areare i locali, passeggiare in aria salubre, evitare i luoghi paludosi o affollati, coprirsi con tessuti spessi nel corso della visita ad ammalati contagiosi, disinfettare con cloruro di calce gli stessi prima di rientrare nella propria abitazione, ecc. Vi erano anche rimedi apparentemente assurdi, ma anch’essi avevano un loro razionale. Per esempio, il porre una torcia accesa tra il medico e l’ammalato di colera appare un’inutile precauzione, ma era fondata sull’ipotesi che il contagio potesse avvenire per via aerea e sul fatto che il fuoco potesse interferire nella trasmissione dell’agente infettivo. Così anche la sanificazione del materiale postale mediante fumigazione con zolfo poteva essere una valida norma prudenziale in assenza di una dimostrazione del contrario (Fig. 3); fatto che avrebbe richiesto in primis la scoperta dei micro-organismi e successivamente studi sulla trasmissibilità dei patogeni tramite la carta da lettere. E in effetti il contrario si dimostrò, al punto che tale pratica cessò senza riproporsi neppure nel corso della recente pandemia di COVID-19. 

Oggi ha un certo fascino cercare antiche lettere trattate per fumigazione. Ne presento qui una, da me recentemente rinvenuta e acquistata a Venezia, riportata alla luce dall’oscurità che l’ha nascosta, ma anche protetta, per molta anni: ha un certo interesse non solo per le caratteristiche postali (Fig. 1), ma soprattutto per il trovarsi tra le righe riferimenti a una pandemia in corso. 

 

Il testo della lettera

 

Pietro mio carissimo,                                                     Genova 24 agosto 1835

Ricevo la carta tua dei 18 colla ingiunta procura pel sig. Garbarini, ossia per l’affare mio con loro. Poco ho a riscontrarti, non essendo D.ta tua che mia conferma delle precedenti. (…) Ho fatto nuova diligenza per trovare il conto Giccardi ma nulla di più ho trovato, che il biglietto accennatoti, che nulla dice in sostanza, sicché se si dovesse arrivare al punto di dare una citazione non si saprebbe ove basarla (…). Per il Luigi Maragliano ti ho domandato pure dei maggiori chiarimenti sul modo, sulla somma, sull’epoca che il Maragliano ti ha tenuto il danaro, ma si è all’epoca del vitalizio, lo vedo dalla ricevuta in data 1815. Sicché la prescrizione non vi ha luogo, e vi sarà tempo a pensarvi in momenti più quieti. Le carte riguardanti la Gaudenza non si sono potute ancora ritrovare. Non vi son che delle note e memorie informi. I documenti mancano. Centurini non si ricorda d’averli. Si attende una sua risposta dietro nuove ricerche. Converrà vedere al Tribunale di Commercio se esistono altri fatti al 1813 epoca indicata nelle memorie che si hanno, che ciò basterebbe per rompere la prescrizione. Si ha tutto in memoria e si farà ciò che si potrà. 

Ora però non è il momento di occuparsi di nulla. La malattia dominante è quella che occupa il pensiero e lo spirito di tutti. 

Noi grazie al cielo stiamo bene. Il figlio mio cresce. I cari di famiglia son tutti in Nervi. (…) Attribuisco a una vera grazia di Dio il non perdermi d’animo, e non essere niente sbigottita in mezzo a tanto lutto, a tanto allarme, a cui certo non sono insensibile. (…) La maggior parte fuggono. Io per ciò senza mettere a parte le regole della prudenza non ho saputo risolvermi. Ho un gran cattivo presentimento per queste fughe, e l’esperienza in parte me lo conferma. Vedo che si muore ovunque. Ci portiamo la malattia con noi, quando la mano di Dio ci vuol colpire. (…) Grazie a Dio qui siamo in luogo d’aria buona, lontano dall’abitato, ed isolati. Non saprei qual impressione potesse farmi l’aria di Nervi ora che la nostra disperazione fisica è tale che ogni piccola (occupazione?) è un bene che in male porta delle alterazioni. Io mi abbandono nelle mani del Signore. Qualunque cosa succedesse non mi tacciare per imprudente. Ti raccomando di non venire finché la malattia non sia interamente finita: per uno che non è più acclimatato l’impressione potrebbe essere fatale. 

Per essere tranquilla, tutte le carte son fatte in regola, impacchettate, suggellate, corredate di memorie, affinché non restino sbandate. Sta’ tranquillo però, non ti affliggere per questo. Io ho un buon presentimento, non son punto allarmata nel nostro particolare. Voglio sperare che il Signore Padre nostro misericordioso, la vergine SS. n’tra avvocata e Gio’ Batta protettore di questa città, le di cui ceneri si son portate ieri in processione di Croce (?) (…). Attenditi la continuazione delle mie buone notizie e sta’ tranquillo sopra tutto fidando in Dio. Che la tranquillità di spirito è il principale preservativo. Persuaditi che è assai maggiore lo spavento del male che si teme o che si vede da lontano, di quel che non è il vero male quando vi si è. 

Frattanto si vede già un bene da questo castigo di Dio. La devozione come cresce, i sacramenti e le confessioni come son frequentate in tutte le ore del giorno, ed anche mi si dice della notte. La processione d’ieri numerosissima, mi si dice che sia stata una vera edificazione.

Io per essere più accompagnata mando oggi a dar ordine a P* in Nervi, che venga a Genova, onde avere un’uomo di più in casa. I vostri vicini stanno bene, lo stesso i miei zii, tutti gli amici e parenti, di cui mando di tanto in tanto a prendere le notizie, sebbene nei trapassati si sente il nome di molti conoscenti.

Oggi si fan dei fuochi per tutta la città, e dopo pranzo sono ordinate molte cannonate per rareffare con queste detonazioni l’aria infettata. 

Salutami tanto tanto mamma che abbraccio con Rachelina. Conservatevi bene tutti, e abbiatevi cura. Pregate per noi, e state allegramente, sebbene mi figuro colle lagrime agli occhi. Mercoledì spero darvi più consolante notizia. Salutami pure pa Gerardo; tutti gli amici, abbracciandoti con amore mi proteggo sempre.

La tua aff.a Giuditta

 

 

Fig. 2

Fig. 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Analisi

La lettera fu scritta su carta velina il 24 agosto 1835 a Nervi, paese a quel tempo prossimo, ma non ancora accorpato, a Genova, nel Regno di Sardegna; fu spedita da Genova, come indicato da una timbratura con inchiostro rosso chiaro, consistente nella semplice scritta “GENOVA”; giunse a Napoli nel regno delle Due Sicilie in data 31 agosto 1835, come indicato da una timbratura circolare con inchiostro rosso scuro, dopo essere transitata per lo Stato Pontificio (fig. 1). In questo Stato fu sottoposta a sanificazione con fumigazione, come indicato dai tagli a tutto spessore, praticati con un apposito strumento postale, definito “rastrello” (fig. 2). I tagli avevano lo scopo di far penetrare i fumi di zolfo tra le pieghe della lettera. L’avvenuta sanificazione è attestata da una timbratura recante in colore grigio l’effige del potere papale sovrastante la scritta “NETTA DENTRO E FUORI”. Si notano inoltre i resti di una chiusura con ceralacca rossa, il taglio triangolare effettuato attorno alla sigillatura, nonché segni e annotazione dell’ufficio postale di Napoli. Vi è una timbratura che indica il luogo di partenza e una timbratura che indica il luogo e la data di arrivo, ma non vi è applicato un francobollo, considerando che questo sistema di pagamento per le spedizioni comincerà ad essere utilizzato in anni seguenti: il primo francobollo cominciò a circolare in Inghilterra nel 1840 e comparve nella penisola italiana dieci anni più tardi con la serie di valori emessa in data 1° giugno 1850 dal regno lombardo-veneto. 

Nei limiti di interesse per un collezionista l’esame di questa lettera potrebbe concludersi qui. Il suo principale interesse risiede nei tagli per la sanificazione, ma questo non è un reperto raro nelle buste italiane di questo periodo. La pratica di disinfettare il materiale postale proveniente da aree colpite da malattia epidemica si era progressivamente diffusa a partire dalla metà del XVI secolo e consisteva nella fumigazione delle lettere e dei plichi con una mistura contenente zolfo. Dal 1832 al 1850 tale pratica fu dismessa dalla maggior parte degli Stati europei, mentre la maggior parte degli Stati italiani la mantenne sulla base del maggiore orientamento ad attribuire carattere contagioso alle malattie, che avevano la caratteristica di diffondersi rapidamente tra la popolazione (3). Ma con il progredire delle conoscenze, pur affermandosi in termini scientifici la contagiosità di tali malattie, fu anche evidenziata la sostanziale assenza di una giustificazione scientifica per il trattamento del materiale postale con fumi di zolfo, sicchè tale pratica scomparve del tutto alla fine del XIX secolo. 

Esaminando più attentamente questo modesto antico documento, si riscontrano peculiari elementi di interesse non tanto negli aspetti filatelici, ma piuttosto nell’“umanità” che emerge tra le righe della missiva e in alcuni riferimenti a un morbo potenzialmente letale. 

La lettera fu spedita da una giovane signora di nome Giuditta, residente in quel momento a Nervi, località prossima a Genova, entro i confini del regno di Sardegna. Dalla lettera sappiamo che aveva un figlio (“il figlio mio cresce”), che i suoi genitori erano viventi e che era particolarmente affezionata a Pietro, destinatario della lettera, con il quale condivideva la gestione patrimoniale; potrebbe essere stato il marito, considerando il finale della lettera: “Salutami tanto tanto mamma, che abbraccio con Rachelina. Conservatevi bene tutti, e abbiatevi cura. Pregate per noi, e state allegramente, sebbene mi figuro colle lagrime agli occhi. Mercoledì spero darvi più consolante notizia. Salutami pure pa Gerardo; tutti gli amici, abbracciandoti con amore mi proteggo sempre.” 

Nello scrivere Giuditta manifesta un livello culturale tale da collocarla nella fascia dell’alta borghesia o dell’aristocrazia. A questi livelli sociali orienta anche la frase: “Io per essere più accompagnata mando oggi a dar ordine a P* in Nervi che venga a Genova, onde avere un’uomo di più in casa.”

L’iniziale motivazione della lettera risiede nella necessità di aggiornare Pietro, in risposta a una sua del 18 agosto, sulla difficoltà di reperire documenti utili per una questione legale. Un importante obbiettivo sarebbe di reperire presso il Tribunale di Commercio documenti su fatti anteriori al 1813, anno al quale fanno riferimento le memorie disponibili, dice Giuditta a Pietro; in tal modo si potrebbe evitare la prescrizione, per avere ulteriore tempo di cercare documenti utili. Ma improvvisamente, al termine della prima pagina, Giuditta relativizza l’importanza della questione, affermando che “ora non è il momento di occuparsi di nulla”, perché “la malattia dominante è quella che occupa il pensiero e lo spirito di tutti.”

In sostanza, di fronte alla malattia che minaccia l’intera comunità le questioni finanziarie non possono essere prioritarie, vi sono valori più elevati. 

Nel 1800 una malattia di interesse collettivo non poteva che essere di natura infettiva. Quale poteva essere questa malattia, tanto grave da occupare nell’agosto 1835 il pensiero e lo spirito di tutti a Nervi? 

E la preoccupazione era diffusa solo a Nervi o anche altrove? 

Varie epidemie di peste si erano succedute in Italia a partire dall’ottobre dell’anno 1347 d.C., ma nel XIX secolo tutta l’Europa ne fu risparmiata (16). 

Il morbo che più imperversò in Europa fu invece il cosiddetto “cholera morbus” o “cholera asiatico”, attualmente noto come “colera”, causato da una tossina prodotta nell’intestino dai ceppi 01 o 0139 (quest’ultimo di più recente riscontro) del batterio Vibrio cholerae (8).

Questo batterio Gram negativo contamina le acque in cui sono disciolte sostanze organiche. La trasmissione avviene per ingestione di acqua contaminata, ma può essere anche interumana per via oro-fecale. La sintomatologia è caratterizzata da febbre, nausea, vomito e diarrea profusa con evoluzione al decesso per disidratazione nei casi più gravi. Nel XIX secolo il trattamento era del tutto empirico. Tra i numerosi rimedi menziono quello del dottor Montgomery, medico che fece esperienza nel 1825, nel corso dell’epidemia indiana, a Chanda, dove riferì frequenti casi di colera fulminante con decesso nell’arco di sei ore (11). Egli riscontrò un beneficio dall’utilizzo del seguente rimedio, se somministrato ai primi sintomi: due grani di oppio, 10 grani di calomelano, tre grani di peperoncino in polvere con un sorso di due once di acquavite, 50 gocce di laudano e 10 gocce di olio di menta piperita. Al persistere dei sintomi la componente liquida del medicamento era somministrata ogni mezz’ora e la componente solida ogni quattro ore. Erano associati bagni caldi, applicazione di boule in sede epigastrica e frizioni alle estremità con arrack, una bevanda alcolica tipica dell’India. Era in tal modo riferita una significativa riduzione dell’elevata mortalità. Anche in altri rimedi del tempo possono essere identificati alcuni dei componenti sopra indicati, ma in realtà nessuno fu in grado di apportare significativi benefici. Attualmente il trattamento consiste nella somministrazione e.v. di soluzioni idro-elettrolitiche e di specifici antibiotici: tetracicline, doxiciclina o azitromicina (9). Se il trattamento è iniziato tempestivamente. la mortalità è contenuta entro lo 0,2%. 

Il colera raggiunse l’Europa dal Bengala, dove si manifestò con particolare virulenza nel 1817, considerata data di inizio della prima pandemia. La pandemia fu preceduta nei decenni precedenti da varie epidemie in India. Le prime identificabili furono nel 1781 nella provincia di Madras, negli anni tra il 1772 e il 1782 lungo la costa del Coromandel e nel 1783 nello Stato indiano Uttar Pradesh sulle rive del Gange, dove in una settimana morirono 20000 pellegrini, che si erano immersi nelle acque contaminate; e questo in un contesto di endemismo già evidenziato nella regione di Arcot nel 1770 (15). La penisola italiana fu colpita tardivamente rispetto al resto dell’Europa; fu coinvolta da sei delle sette pandemie di colera tra il 1835 e il 1915 (14). La prima pandemia ebbe inizio nel 1835 in seguito alla penetrazione del morbo nel regno di Sardegna dalla Francia. 

Scrive nel 1836 un medico modenese (10): “La fatale malattia contagiosa Cholera morbus che dal 1817 in avanti percorre il Globo terrestre attaccando con somma rapidità e forza la specie umana, attualmente trovasi in Italia, e minaccia d’invadere questi felicissimi dominj e portare ivi il micidiale flagello”.

Genova fu la prima città italiana coinvolta. 

Fig. 4 – Plico inviato in data 19 settembre 1837 da Napoli a Genova per la Signora Francesca Giud.ta Gnecco. Attestazione di avvenuta santificazione con fumi solo sulla superficie esterna del  plico: “Netta fuori e sporca dentro”.

La malattia che preoccupa Giuditta è quindi il colera.

Come nel caso di tutte le malattie infettive, nella prima metà del XIX secolo non ne era noto l’agente eziologico: i batteri non erano stati ancora scoperti. Tuttavia, fin dal XVI secolo a partire dalle osservazioni di Girolamo Fracastoro (Hieronymi Fracastorii) nel De contagione et contagiosis morbis et eorum curatione era ben noto che queste malattie si caratterizzano per la trasmissibilità dell’agente eziologico per contatto con elementi contaminati o per via aerea; erano quindi malattie accumunate dalla caratteristica della “contagiosità”, concetto che tuttavia non era di unanime accettazione. Ancor meno accettata era l’ipotesi che l’agente eziologico corrispondesse ai “seminaria”, come li chiamava Fracastoro, ovvero elementi vitali invisibili. Questa ipotesi venne rivalutata da Agostino Bassi che nel 1844 individuò un parassita sui bachi della seta e lo mise in relazione causale con il calcino, una malattia del baco da seta. La correlazione tra micro-organismi e malattie contagiose fu confermata dagli studi di Koch: risale al 1882 l’identificazione del Micobacterium tubercolosis e al 1884 l’identificazione del Vibrio cholerae. Ma negli anni ’30 erano ancora dominanti antiche credenze su un’origine dei morbi da un veleno presente nell’aria (12) o da una corruzione dell’aria causata da processi di decomposizione o dal transito di corpi celesti. 

Giuditta scrive: “Grazie a Dio qui siamo in luogo d’aria buona, lontano dall’abitato, ed isolati.” E’ evidente che la donna ritiene importante un’aria salubre, per prevenire il contagio. Riecheggiano gli orientamenti del tempo, che indicavano in un avvelenamento o in una corruzione dell’aria la probabile origine del colera. Come si nota nel seguito, questa idea si allinea con l’orientamento delle istituzioni cittadine: “Oggi si fan dei fuochi per tutta la città, e dopo pranzo sono ordinate molte cannonate per rareffare con queste detonazioni l’aria infettata.” L’idea di affidare alle cannonate il tentativo di arginare il morbo aveva probabilmente il razionale nel diffondere nell’aria contaminata lo zolfo, elemento tenuto in gran conto nei processi di sanificazione. Inoltre, un ulteriore scopo delle cannonate poteva essere di perturbare con gli spostamenti d’aria causati dalle detonazioni i miasmi generatori del morbo. L’idea dei miasmi riecheggia nel 1835 anche negli Annali delle Due Sicilie “Buona parte dell’Italia superiore ha pagato tristo tributo di vittime, e sventuratamente un soffio maligno potrebbe una volta contaminare anche il nostro cielo sereno”; parole preoccupate, che seguono alla firma del regolamento governativo indirizzato a prevenire la diffusione del morbo da parte del re Ferdinando II di Borbone (6). La preoccupazione per i miasmi emerge anche in un manuale medico del 1836 (10), nel quale si raccomanda di “passeggiare abitualmente fuori di casa all’aria libera, e salubre, evitando le fatiche soverchie, i caldi eccessivi, l’umido, il freddo dell’atmosfera, e specialmente la notte, ed i luoghi ove vi sono arie paludose (…) non lasciare giammai le orine, o le materie fecali nei pitali (…), occhio attentissimo ai letamaj, ed immondizzaj, acciò sieno chiusi (…) nel caso di doversi esporre alla visita d’infermi munirsi di una cappa di tela fitta lucida, od incerata coi guanti di taffetà, e ciò per impedire l’assorbimento cutaneo, mentre che si eviterà il pulmonale se s’intrometta una torcia accesa tra il sano e l’infermo all’altezza del mento, che si dovranno togliere allorché si è di ritorno nella propria casa, e prima di esporsi in comunicazione colle famiglie, poi lavarla con acque, e nello stesso tempo profumarla, o col cloruro di calce, o col profumo di Morveau (…) (Nota 1)”. Per quanto siano qui riportate buone norme igieniche, questi consigli sono evidentemente correlati alla tesi che il contagio avvenga per via aerea. 

Se sul piano civile a Nervi si pensò di utilizzare fuochi e cannonate, l’Istituzione religiosa propose le processioni: “Gio’ Batta protettore di questa città, le di cui ceneri si son portate ieri in processione di Croce (…)”. Questa lettera data quindi al 23 agosto 1835 una processione religiosa a Genova, organizzata per contrastare l’epidemia con un segno collettivo di devozione. Analoga soluzione fu adottata in altre città. Se è dubbio che questo sistema fosse utile per risolvere il problema, positivo, a mio parere, fu invece sul piano religioso il rinsaldarsi del legame affettivo con la divinità nel prendere coscienza della precarietà del vivere, nel prender coscienza della vanità della ricchezza e della gloria, come nota Giuditta: “Frattanto si vede già un bene da questo castigo di Dio. La devozione come cresce, i sacramenti e le confessioni come son frequentate in tutte le ore del giorno, ed anche mi si dice della notte. La processione d’ieri numerosissima, mi si dice che sia stata una vera edificazione.”

Napoli era esente dal contagio e perciò Giuditta raccomanda a Pietro, che risiede in questa città: “di non venire finché la malattia non sia interamente finita: per uno che non è più acclimatato l’impressione potrebbe essere fatale.”

In queste righe è espressa la percezione che un’infezione contratta in un luogo distante da quello abitualmente frequentato possa essere più pericolosa di un’infezione contratta nel luogo in cui abitualmente si risiede. Non sappiamo su quale elemento Giuditta fondasse questa percezione; ma è sostanzialmente corretta in rapporto alle nostre odierne conoscenze immunologiche: il nostro sistema immunitario presenta una memoria che lo attiva rapidamente al momento di una riesposizione a micro-organismi con i quali abbiamo convissuto fin dall’infanzia, al punto che essi possono essere neutralizzati prima che si manifesti una severa malattia. Inoltre, nel mezzo di una nuova epidemia, una persona, che vive da tempo nell’area contaminata senza aver sviluppato la malattia, ha una certa probabilità di essere entrato in contatto con basse cariche dell’agente infettivo, migliorando la sua difesa immunitaria. La frequentazione occasionale di una lontana area geografica ci espone invece a nuovi ceppi batterici, che hanno maggiore probabilità di causare una severa malattia, non essendovi stato precedentemente un contatto degli antigeni batterici con il sistema immunitario. 

Altra interessante osservazione riscontrabile in questa lettera è la seguente: “Attenditi la continuazione delle mie buone notizie e sta’ tranquillo sopra tutto fidando in Dio. Che la tranquillità di spirito è il principale preservativo. Persuaditi che è assai maggiore lo spavento del male che si teme o che si vede da lontano, di quel che non è il vero male quando vi si è.”  

Essa risente di consigli contenuti in manuali dell’epoca, che hanno un fondamento fisiologico, a quel tempo non noto: una mente serena consente una migliore risposta del sistema immunitario agli agenti infettivi, non essendovi gli effetti inibitori dei mediatori dello stress. In un libro edito a Modena nel 1836 ad uso dei clienti un medico fornisce rimedi contro il colera suddivisi per tabelle (10): Dalla morale; Dal cibo, e bevande; Dal moto, quiete, sonno e veglia; Dalle abitudini inveterate, dall’abitazione, ecc. Nella sezione “Dalla morale” egli scrive: “Necessità di ricorrere agli aiuti divini, ma per far ciò unirsi prima del contagio, perché nel tempo della sua influenza potrebbe essere dannoso.  Avere confidenza nella misericordia di Dio, rassegnazione ai suoi voleri, darsi in tutto in braccio alla sua provvidenza, procurarsi tranquillità d’animo, considerare l’epidemia come un volere d’Iddio (…) avere una magnanima condotta verso i poveri infermi, allontanarsi dai patemi, quali sono l’inquietudine, l’ira, il timore, e così pure dall’intensa applicazione specialmente di cose tetre e malinconiche.”

Per sfuggire al morbo Giuditta si chiede se non sia il caso di allontanarsi da Nervi e da Genova, ma questa soluzione non la convince: “Attribuisco a una vera grazia di Dio il non perdermi d’animo, e non essere niente sbigottita in mezzo a tanto lutto, a tanto allarme, a cui certo non sono insensibile. (…) La maggior parte fuggono. Io per ciò senza mettere a parte le regole della prudenza non ho saputo risolvermi. Ho un gran cattivo presentimento per queste fughe, e l’esperienza in parte me lo conferma.”

In questo effettivamente Giuditta ebbe buon discernimento: il colera raggiunse presto il resto dell’Italia. Napoli, luogo di destinazione della sua lettera e ipotetica sua meta, abitandovi suoi parenti, fu raggiunto dal colera nell’autunno del 1836 nonostante tutte le attenzioni poste a evitare l’ingresso del morbo in città tramite i cosiddetti “cordoni sanitari”, per i quali furono impiegati numerosi soldati. In questa città il colera ebbe rapida diffusione ed elevata mortalità per le mediocri condizioni igieniche locali (6). 

L’atteggiamento di Giuditta di fronte alla malattia non è di paura, pur non essendo temeraria. E la sua fede cristiana la fortifica: “Vedo che si muore ovunque. Ci portiamo la malattia con noi, quando la mano di Dio ci vuol colpire. (…) Grazie a Dio qui siamo in luogo d’aria buona, lontano dall’abitato, ed isolati. Non saprei qual impressione potesse farmi l’aria di Nervi ora che la nostra disperazione fisica è tale che ogni piccola [preoccupazione?] è un bene che in male porta delle alterazioni. Io mi abbandono nelle mani del Signore.”

Ma pur affidandosi a Dio, rivela di essere pragmatica e si preoccupa di mettere in ordine tutte le carte utili alla famiglia per la peggiore eventualità: “Per essere tranquilla, tutte le carte son fatte in regola, impacchettate, suggellate, corredate di memorie, affinché non restino sbandate. Sta’ tranquillo però, non ti affliggere per questo. Io ho un buon presentimento, non son punto allarmata nel nostro particolare.” 

 

Un seguito alla lettera …

A questo punto potremmo chiederci se Giuditta e Pietro sfuggirono al morbo, quanto vissero, quali eventi diedero sostanza alla loro vita. 

Sorprendentemente, qualche piccolo dato possiamo ottenerlo da un’accurata indagine in Internet.

Per questo scopo, in primo luogo ho dovuto pormi l’obbiettivo di identificare il cognome di Pietro, che a prima vista nella non sempre facile grafia di Giuditta potrebbe essere “Queno”. Facendo una ricerca tra i nominativi di defunti presso i cimiteri monumentali di Nervi e di Staglieno, non vi ho trovato nè Giuditta, nè Pietro con questo cognome o con un cognome che vi abbia somiglianza per numero di lettere e posizione delle vocali. Tuttavia, ho identificato un cognome che può sostituirsi all’ipotetico “Queno: “Gnecco”. Ricercando poi in un sito di araldica si scopre che “Gnecco” è un cognome di una famiglia genovese di antiche origini. La casata si stabilì a Nervi e nel corso della sua esistenza fu onorata dal titolo di “conte”. 

Il destinatario è quindi Pietro Gnecco. 

  • Ne “La raccolta delle leggi ed atti pubblicati dal Governo provvisorio delle serenissima repubblica di Genova” troviamo un proclama del Comandante in capo britannico W.C. Bentinck, risalente al giugno 1814, anno in cui Genova fu occupata dall’armata britannica (13). Nell’aprile 1814 era stato costituito un Governo provvisorio con Presidente Girolamo Serra. Avviati i lavori del Governo, nel proclama di giugno è indicato un elenco di cittadini genovesi ammessi a costituire il gran Consiglio e il piccolo Consiglio. Solo i primi 67 della lista sarebbero stati ammessi al piccolo Consiglio. Pietro Gnecco figura in 132° posizione, quindi egli era divenuto membro del gran Consiglio. L’anno seguente il Governo decadde, la Repubblica fu soppressa e Genova fu annessa al regno di Sardegna. 
  • L’11 maggio 1821 Pietro Gnecco fu nominato direttore della Compagnia di assicurazioni marittime di Genova detta “Compagnia de’ Negozianti rinnovata” (7). 
  • Nel 1826 è pubblicato a Napoli dalla tipografia della Biblioteca cattolica il volume “Ristaurazione della scienza politica” di Carlo Ludovico de Haller (2). Al termine del volume vi è un “Elenco di tutti coloro che onorano colla loro sottoscrizione la Biblioteca Cattolica”. Nella sezione “Napoli” vi si rinviene tal sig.a D. Francesca Giuditta Gnecco. Avendo rinvenuto nelle mie ricerche una lettera indirizzata a Francesca Giu.ta Gnecco da Napoli a Genova e avendone esaminato il contenuto, posso affermare per certo che l’autrice della lettera qui presentata corrisponde alla benefattrice della Biblioteca Cattolica. Si comprende inoltre che ella preferiva farsi chiamare con il secondo nome, Giuditta, piuttosto che con il primo nome, Francesca.
  • In una sentenza del 27 dicembre 1833 si accenna all’annullamento di una sentenza del Tribunale di Commercio del 5 ottobre 1831, essendo stato l’atto di citazione recapitato a una casa sita in strada S. Bernardo invece che al domicilio di Pietro Gnecco, in strada Giustiniani di Genova. Dalla sentenza si comprende che Pietro Gnecco era stato citato assieme al co-direttore Ghersi a rendere conto “dell’esercizio dell’incumbenza a lui affidata” in qualità di direttore della Compagnia di assicurazioni marittime “Compagnia de’ Negozianti rinnovata” di Genova (7). 
  • In una lettera inviata dal nipote Martino a Pietro in data 7 settembre 1835 da Genova a Napoli, vi è riferito: “A pronto riscontro della grata sua giudico che la malattia continua in diminuzione, ma però molto adaggio, perché il numero de casi è ancora discreto, e la intensità della malattia continua sempre sullo stesso piede non essendo cessati ancora i cosidetti casi fulminanti avvenendone qualche d’uno tutti giorni che appena attaccati bene muoiono in poche ore, però si spera che cesseranno al più presto come di cuore desidero mediante l’aiuto divino e della S.ma Vergine ciò che mi auguro potergli avvisare con i primi corrieri. La sua lettera per Giuditta gliel’ho mandata per il suo domestico Alberto e lo stesso mi ha detto che sta bene assieme al figlio”. Dalla stessa lettera si comprende che Pietro era domiciliato a Napoli presso il signor Emanuelle Gnecco.
  • Nel 1841 Pietro e Giuditta Gnecco erano domiciliati a Napoli. 

Infatti, nel bollettino “Il Diario di Roma” n° 36 del maggio 1841 è riportata ad istanza del cardinale Spinola la citazione “della ditta Emanuelle Gnecco e per essa di Pietro Gnecco gerente, nonchè di Giuditta e Rachele Gnecco tutti domiciliati in Napoli Regno delle Due Sicilie” in relazione a una condanna al pagamento di 1078 scudi dovuti alla ditta Emanuelle Gnecco di Napoli per saldo del conto (5). In una successiva sentenza è invece condannata al pagamento di 2304 scudi, dovuti per pigione dalla ditta Gnecco pagata per conto del fu duca Carlo Michele Stuard di Bervick, la vedova del duca, duchessa Rosalia Ventimiglia, e i suoi figli Giacomo ed Enrico, domiciliati a Parigi (5). 

L’anno prima, nel 1840, il papa aveva raccomandato al cardinal Spinola il patrimonio della ditta Gnecco e Compagni di Roma, diretta in passato da Felice Gnecco, ad effetto di assumere l’esclusiva amministrazione, con facoltà ancora di eleggere persona di sua fiducia (4).

  • Nel 1853 Giuditta era vedova.

Infatti in tale data “tal signora Giuditta Gnecco q. Emanuele e vedova di Pietro Gnecco presentò un documento del 26 aprile 1841 attestante il pieno dominio di una villa con casa in Promontorio (corrispondente alla salita Promontorio di Genova), ricevuto in dono dalla duchessa Carolina Imperiale figlia del fu principe d. Giulio, autorizzata dal marito duca GB Capece Pisicelli residenti a Napoli” (1). 

 

Interesse storico del documento

In Italia fu la riviera ligure il luogo di esordio del colera (15). Perciò, questa lettera privata, datata 24 agosto 1835 e scritta a Nervi, contiene una testimonianza che ci fornisce una datazione approssimativa sul primo manifestarsi del colera in Italia: agosto 1835. Nella seconda metà di agosto la situazione doveva essere tanto grave da mobilitare le Istituzioni civili e religiose con una processione religiosa (la processione di Croce) e con tentativi di sanificare l’aria, che si riteneva infettata:

  • “Ci portiamo la malattia con noi, quando la mano di dio ci vuol colpire. Così il Rebilio in Nervi, Gio’ Carlo Balbi a Camogli, la Da Ferrari sorella di Bianchina Bragro a Rivarolo, e così tanti altri che non saprei indicare.”
  • ” (…) nei trapassati si sente il nome di molti conoscenti”.
  •  “ (…) Gio’ Batta protettore di questa città, le di cui ceneri si son portate ieri in processione di Croce (…)”
  • “Oggi si fan dei fuochi per tutta la città, e dopo pranzo sono ordinate molte cannonate per rareffare con queste detonazioni l’aria infettata.”

La lettera conferma infine diffusi orientamenti di sanità del tempo: opportunità di sanificare il materiale postale; convincimento su una presenza dell’agente eziologico nell’aria; importanza di un’azione disinfettante con fuoco e zolfo;  importanza della tranquillità d’animo e della preghiera, per contrastare la gravità della malattia.

 

Osservazioni finali

L’attuale pandemia da SARS-CoV-2 ha messo in risalto una risposta scientifica e tecnologica efficiente, impensabile nel XIX secolo. E’ stato in questo modo possibile identificare e caratterizzare geneticamente l’agente eziologico del COVID-19, ottenendo i dati utili per sperimentare numerosi vaccini con raffinate tecnologie.  Alcuni vaccini sono entrati in produzione in tempi molto più rapidi di quanto inizialmente previsto. La fiducia nella tecnologia non è universale, come si è potuto constatare nel cosidddetto fenomeno “No Vax”. Tuttavia, indiscutibilmente si è manifestata un’ammirevole attitudine dell’intelletto umano per questo ambito. 

Come prevedibile, il sentimento religioso non ha tratto beneficio dalla pandemia, essendo ormai diffusamente labile. Diversa fu la risposta nel XIX secolo, come ci attesta l’autrice della lettera qui presentata: “Frattanto si vede già un bene da questo castigo di Dio. La devozione come cresce, i sacramenti e le confessioni come son frequentate in tutte le ore del giorno, ed anche mi si dice della notte. La processione d’ieri numerosissima, mi si dice che sia stata una vera edificazione.”

Tuttavia, il vero “teofilo” non ha necessità di trovarsi nelle avversità, per scoprire la devozione e in questo senso la scrivente lo conferma, manifestando tra le righe della lettera una serena e collaudata confidenza in Dio, ben diversa dal fugace sentimento religioso del pavido. 

Al giorno d’oggi molti non sono in grado di comprendere questa devozione e troverebbero altresì buffo il consiglio fornito del medico modenese sopra citato: “ricorrere agli aiuti divini, ma per far ciò unirsi prima del contagio, perché nel tempo della sua influenza potrebbe essere dannoso.  Avere confidenza nella misericordia di Dio, rassegnazione ai suoi voleri, darsi in tutto in braccio alla sua provvidenza, procurarsi tranquillità d’animo, considerare l’epidemia come un volere d’Iddio (…) avere una magnanima condotta verso i poveri infermi (…)”. 

Tuttavia, sono convinto che tale incomprensione sia correlata non tanto a un miglioramento evolutivo della mente umana, ma a una minore affettività correlata al concetto di Dio e a uno “slittamento” dell’intelligenza dalla capacità di osservare in determinate sequenze degli eventi naturali e sociali il loro correlarsi come in un ordito, intuendo perciò la possibilità di una correlazione causale, sovrannaturale, sfuggevole alla possibilità di una descrizione con rigoroso metodo scientifico, verso una capacità di conoscenza fondata esclusivamente sui rilievi strumentali, feconda di scoperte e d’innovazione tecnologica, ma con il limite di essere appagata dai suoi stessi confini di realtà in cui si è trincerata. 

 

Nota 1 – Il profumo Guyton Morveau fu proposto all’inizio del XIX secolo dal chimico francese Louis Bernard Guyton de Morveau nel “Traité des moyens de désinfecter l’air, de prévenir la contagion, et d’en arrêter les progres”. Consisteva in cloro gassoso prodotto dalla combinazione di cloruro di sodio con acido nitrico e biossido di manganese. Questo disinfettante fu utilizzato nei primi decenni del XIX secolo negli ospedali francesi. I componenti erano posti in un recipiente di vetro, accolto all’interno di una cornice in legno. La cornice costituiva il supporto di una robusta vite in legno, che consentiva di premere con forza una tavoletta sull’apertura del vaso, quando si voleva interrompere l’erogazione del cloro nel locale. 

 

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