di Enrico Ganz

 

Alcuni flash sul tema Coronavirus.

 

“Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. I pazienti muoiono per le loro patologie, non per il Coronavirus”.

Questa è l’affermazione di una dottoressa, impiegata presso un Servizio dell’ospedale Sacco di Milano. Il parere è stato ampiamente diffuso al pubblico in febbraio tramite i microfoni RAI nel corso di un telegiornale serale.

Breve commento sull’affermazione: è evidente che un’elevata percentuale della popolazione soffre di patologie croniche cardiache, renali o metaboliche e che la loro aspettativa di vita è comunque complessivamente promettente grazie alle cure mediche. Se un’infezione virale è causa di significativa mortalità in questa categoria di malati, non è certo sostenibile che in definitiva la mortalità è causata dalle patologie concomitanti…

 

Per questa affermazione ha manifestato comprensibile indignazione un virologo, professore presso un’Università che ha sede in area milanese.

Peccato che pubblicamente egli abbia squalificato in modo deontologicamente non accettabile l’incauta collega, definendola “la signora” del Sacco”; e manifestando in tal modo un’inappropriatezza di linguaggio, che già a suo tempo avevo stigmatizzato nelle sede più opportuna, ricevendo una surreale risposta dall’Ordine dei Medici competente …

 

Nel corso di un’intervista su Antenna3 in data 22/3 un politico della regione Veneto ha affermato: “Non vi è disponibilità di reagenti in tutto il mondo, per effettuare diffusamente i tamponi.”

Alla luce di questa affermazione non sembra quindi facilmente fattibile il piano di prevenzione annunciato alcuni giorni prima e sintetizzato nell’articolo di QuotidianoSanità, datato 15/3/20, “Coronavirus “In Veneto tamponi anche ai contatti occasionali per isolare i positivi asintomatici”:

“I Sisp provvedono ad effettuare un’accurata indagine epidemiologica procedendo per centri concentrici ed allargando, per ogni singolo caso, la ricerca all’individuazione oltre che di tutti i possibili contatti “stretti” (familiari e lavorativi) anche di tutti i contatti occasionali (anche definiti come “non stretti” o a basso rischio). E’ necessario che all’interno del Dipartimento di Prevenzione venga definita un unità ad hoc, supportata anche da altri servizi dell’Azienda, che possa garantire l’effettuazione a domicilio di tamponi anche di soggetti paucisintomatici o momentaneamente asintomatici che possono comunque essere potenzialmente collegati ad un cluster).”

Un tale piano di prevenzione ha necessità di un’ampia disponibilità di reagenti. E’ forse questo il motivo per cui del piano preventivo si è persa traccia nella citata intervista?

Non vi è che da sperare che le industrie chimiche trovino presto una soluzione, altrimenti potrebbe consolidarsi l’idea che i politici non si smentiscono mai sull’approssimazione dei loro progetti … E sul fatto che sanno sempre risolvere i problemi: “Prima la gente si lamentava per le liste d’attesa, ora si comprende quanto vale la Sanità veneta …” (cito dalla precedente intervista).

Domanda sul tema:

“Il problema delle liste di attesa è stato risolto?”

Domanda ovvia, ma i giornalisti presenti sono rimasti in religioso silenzio…

 

Anche la sanità della regione Lombardia ha qualche problema: QuotidianoSanità informa che la mortalità per Coronavirus è attualmente la più alta del mondo: 12,7%. Tra le ipotesi vorrei proporne una sorprendente e benevola: il motivo risiederebbe nell’elevata qualità della Sanità italiana. Ovvero: la Sanità italiana potrebbe aver ottenuto negli ultimi anni risultati superiori rispetto ad altri Paesi nella tutela delle necessità sanitarie degli anziani e dei malati affetti da patologie croniche. Vi sarebbe quindi un’elevata percentuale di persone fragili, che vivono in un delicato equilibrio di salute grazie alla possibilità di accedere a tutti gli accertamenti e le cure opportune. L’infezione da SARS-CoV-2 ha certamente alterato profondamente questo equilibrio. Tuttavia, altre ipotesi non sono da trascurare: l’inquinamento industriale; il minor numero di posti letto di terapia intensiva rispetto ad altri Paesi, un ceppo virale più aggressivo, una sottostima dei decessi da CoViD-19 in alcuni Paesi, …

 

“I bambini sono relativamente resistenti al Coronavirus. Non comprendiamo bene il perché. Pensiamo, io lo penso, – e non sono l’unico a pensarlo – che questo possa essere legato al fatto che il sistema immunitario dei bambini è allenato costantemente dai vaccini. Ricordiamo che i vaccini danno protezione anche per malattie che non hanno nulla a che vedere con il germe contro cui sono diretti.” Questa è l’affermazione del direttore scientifico Humanitas – Milano nel corso della trasmissione andata in onda su TGR Leonardo alle ore 15 del 20/3/20.

La conclusione della giornalista, che lo intervistava, è stata la seguente “Quindi vaccinarsi è sempre più importante”.

Non fermiamoci alla superficie. Quale potrebbe essere il fondamento scientifico di questa ipotesi? I virus del morbillo, della rosolia, della varicella non sono parenti stretti del Coronavirus. Quindi, per quale motivo i vaccini contro le infezioni da questi virus potrebbero offrire una protezione nei confronti di SARS-CoV-2?

In uno studio retrospettivo, che prende in considerazione bambini cinesi, infettati dal SARS-CoV-2, è stato evidenziato che la gravità dei sintomi è stata significativamente inferiore rispetto a quanto osservato negli adulti e che la mortalità è eccezionalmente bassa (un solo caso su 2143 bambini) (Dong, 2020). Inoltre, meno dell’1% dei casi di CoViD-19 ha interessato bambini di età inferiore a 10 anni (Lu X , 2020).

E’ ragionevole ipotizzare che il miglior decorso sia correlabile alle vaccinazioni d’obbligo, piuttosto che a un’innata maggiore efficienza della componente immunitaria cellulo-mediata in giovane età?

E’ stato osservato che la gravità dell’infezione decresce progressivamente da 0 a 15 anni (Dong, 2020), aumentando in fasce di età più avanzata e in presenza di comorbilità (Wang, 2020). Tra le ipotesi per spiegare questo fatto vi è la possibilità che i bambini più grandicelli abbiano più elevati titoli anticorpali, naturalmente acquisiti nel corso di infezioni respiratorie invernali, quali quella sostenuta dal virus respiratorio sinciziale (Dong, 2020).

Non si comprende invece quale peculiarità dovrebbe avere uno stimolo vaccinale nell’essere essenziale per determinare la minore incidenza di CoViD-19 in età pediatrica.

E’ ben noto che in generale le cellule giovani rispondono più prontamente a stimoli cellulari e a danni tessutali; è verosimile che analogamente si comportino le cellule del sistema immunitario in risposta agli agenti infettivi (Lee, 2020). Le stesse cellule della mucosa respiratoria sono certamente in grado di rigenerarsi più rapidamente nel giovane in caso di citolisi mediata dal virus, consentendo di mantenere migliori scambi respiratori. Si deve anche tenere presente l’azione nociva del fumo di sigaretta e della prolungata esposizione ad agenti inquinanti negli adulti. Potrebbero essere questi alcuni dei motivi che spiegano la maggiore resistenza dei bambini nei confronti di determinate infezioni virali.

Ma la questione è complessa e che tale sia lo provano i seguenti fenomeni, tuttora in attesa di una spiegazione fisiopatologica:

– la paralisi in esito di una poliomelite colpisce con maggior frequenza i bambini che gli adolescenti (Kliegman, citato in Lee, 2020).

– la rosolia ha un decorso più problematico nell’età adulta (Kliegman, citato in Lee, 2020).

– la pandemia H1N1 del 1918 si è manifestata con sintomi più gravi nei giovani adulti, che in altre fasce di età (Olson, 2005).

– la malattia da Coronavirus NL63 è più comune negli adulti che nei bambini (Huang SH, 2017).

Per comprendere ancora meglio quale sia la complessità della questione si può considerare che il Coronavirus NL63 si lega all’enzima 2 per la conversione dell’angiotensina (ACE2) (Hofmann, 2005). Si considerò allora l’ipotesi che ACE2 fosse meno espresso nelle cellule dei più giovani, spiegandone la maggiore resistenza all’infezione dei giovani. Ma, analizzando le concentrazioni di ACE2 nei polmoni di animali in età diverse, si osservò che la concentrazione di ACE2 si riduceva con l’età (Xie, 2006). Quindi, è probabile che anche i polmoni umani abbiano una maggiore concentrazione di ACE2 in giovane età. Ma questo fatto non influisce negativamente, nonostante che il virus riconosca ACE2 come recettore al quale legarsi nel processo di infezione (Gu, 2016).

Quindi, allo stato attuale delle povere conoscenze che abbiamo, sottolineare al pubblico l’ipotesi che le vaccinazioni di legge potrebbero essere protettive nei confronti dell’infezione o della malattia da Coronavirus significa fare un passo troppo lungo.

E’ ben noto che le infezioni naturali sono un importante stimolo immunogeno: queste infezioni contribuiscono in modo determinante alla “formazione” del sistema immunitario in giovane età. Se per pura ipotesi un bambino fosse vaccinato annualmente, dal primo anno di vita, contro tutti gli agenti patogeni esistenti in natura, anche quelli più banali, avrebbe un sistema immunitario carente, sottoregolato. L’assenza di una forte “memoria” impressa dalle consuete, modeste, infezioni infantili delle vie respiratorie potrebbe costituire un grave problema di salute in età avanzata, quando il sistema immunitario diventa naturalmente meno reattivo agli insulti, come accade in generale per tutte le cellule dell’organismo. In queste condizioni potrebbero essere letali anche quelle infezioni che normalmente hanno un decorso benigno. L’importanza dell’immunità naturalmente acquisita in età pediatrica è ben nota. Per esempio, un soggetto adulto europeo rischia infezioni gravi quando si sposta in alcune aree geografiche dell’Asia e dell’Africa, mentre i nativi sono soggetti a infezioni meno gravi, pur essendo sostenute da quegli stessi agenti patogeni. Questo fatto dipende dalla più intensa memoria immunologica, maturata nel corso di infezioni contratte fin dalla giovane età. Un esempio è la cosiddetta “diarrea del viaggiatore”.

In conclusione, potrebbe essere interessante valutare l’ipotesi di un rapporto tra vaccinazioni in età pediatrica e resistenza dei bambini al Coronavirus. Questa ipotesi appare comunque inverosimile, considerando che la sintomatologia da SARS-CoV-2 diventa più significativa sopra i 15 anni di età, ovvero in un’età in cui i giovani sono già stati vaccinati contro le note malattie esantematiche dell’infanzia. E’ verosimile che l’immunità naturalmente acquisita nei confronti delle comuni infezioni respiratorie contribuisca al decorso clinico più benigno osservato nelle sottofasce di età più elevata nell’ambito della fascia di età 0-15 anni.

L’ipotesi di un ruolo benefico delle vaccinazioni non dia ingiustificata speranza alla gente, orientandola a farsi l’idea che in definitiva anche la vaccinazione anti-influenzale possa essere un importante contributo per rafforzare le difese immunitarie contro il Coronavirus nella fascia pediatrica. Questo è molto lontano dal vero. L’unica osservazione che si può fare in tema di influenza è il peggiore decorso dei pazienti adulti infettati contemporaneamente da Coronavirus NL63 e virus influenzale H1N1. Ma il problema non è stato osservato nei bambini (Huang SH, 2017).

Un’altra idea che ci suggerisce l’affermazione del direttore scientifico Humanitas è che infine sia preferibile contrarre le malattie esantematiche, piuttosto che vaccinarsi. Infatti, se fosse reale il benefico effetto del contatto con gli antigeni dei virus responsabili di tali malattie ai fini dell’immunità contro il Coronavirus, chiaramente il contrarre queste malattie potrebbe esaltare in modo ancor più marcato la risposta immunitaria crociata nei confronti del Coronavirus, con l’effetto che si ridurrebbe la percentuale di quei bambini che attualmente contraggono un’infezione da SARS-CoV-2 con grave sintomatologia (Nota 1).

 

Dalle affermazioni discutibili passiano alla questione sull’uso delle mascherine chirurgiche, ben sintetizzata dal dott. Claudio Beltramello in un’articolo comparso in data 18/3/20 su QuotidianoSanità. E’ noto che le mascherine chirurgiche non proteggono una persona sana dal contagio, qualora stia in prossimità di una persona infetta, come potrebbe accadere in un autobus. Infatti, la mascherina chirurgica limita esclusivamente la diffusione di goccioline espiratorie, ma non l’inalazione di particelle contaminanti sospese nell’ambiente. Per questo motivo esistono, non per inutile finalità commerciale, mascherine FPP2 e FPP3, che garantiscono una protezione superiore al 90%. Eppure, l’Istituto Superiore della Sanità ha fornito un’indicazione ottimistica, ritenendo le mascherine chirurgiche siano uno standard di protezione per i sanitari impegnati nell’assistenza dei pazienti SARS-CoV-2 positivi, eccetto i casi in cui si generano aerosol.

E’ quindi ipotizzato che vi possano essere pazienti che nel corso dell’assistenza certamente non tossiranno, nè sternutiranno, neppure occasionalmente e in modo del tutto inaspettato… In queste situazioni si potrebbe certo indossare una mascherina chirurgica senza rischiare (forse) di infettarsi. Ma è forse certo che un paziente con significativa sintomatologia respiratoria non tossisca, né sternutisca? Nello studio di Chen e al., riguardante le caratteristiche epidemiologiche e cliniche di 99 casi di CoViD-19 in Cina, la tosse era presente nell’82% dei pazienti (Chen, 2020). Vi sono inoltre altre insidie: sembra che gli “occhialini” per ossigenoterapia generino essi stessi aerosol. La soluzione di collocare una mascherina chirurgica davanti al viso del paziente è adeguata?

In assenza di assolute certezze, l’indicazione all’utilizzo della mascherina chirurgica nell’assistenza dei pazienti SARS-CoV-2 positivi, “eccetto i casi in cui si generano aerosol” è piuttosto sorprendente e di fatto potrebbe essere fuorviante. Doveva essere invece espressamente raccomandato di utilizzare i dispositivi di più alta protezione nei pazienti SARS-CoV-2 positivi, essendo questi malati ad alto rischio di produrre aerosol infetti.

Non meraviglia che si sia registrato un elevato numero di personale sanitario infetto: 3654 casi su un totale di 35731 positività diagnosticate in Italia al 19 marzo 2020.

E’ quindi comprensibile che il personale sanitario non abbia gradito la parola “Eroi” in riferimento al suo impegno per i malati, ritenendo di essere stato preso in giro da coloro non usano le più appropriate raccomandazioni per la tutela del lavoratore e da coloro non hanno messo prontamente a disposizione i più opportuni presidi protettivi. “È gravissimo eticamente e deontologicamente che questo provvedimento (relativo alle mascherine chirurgiche che proteggono adeguatamente medici e operatori) sia stato suggerito dal comitato tecnico cioè da colleghi medici, perché non preserva la salute dei medici e di tutti gli operatori, anzi rischia di trasformarli in untori” ha osservato l’Ordine dei Medici di Roma. E a proposito della carenza di presidi FPP2 e FPP3 in una lettera aperta al Presidente della Repubblica lo SNAMI ha domandato al Presidente della Repubblica “Manderebbe un soldato in guerra senza fucili?” Le sigle sindacali dei Medici hanno inviato una diffida alle Aziende sanitarie della regione Veneto, affidandosi a una diversa fonte per cercare di ottenere una più adeguata protezione in presenza di positività CoViD-19, ovvero la Circolare n. 0005443 del 20.02.2020, con la quale il Ministero della Salute prevede espressamente che “il personale sanitario in contatto con un caso sospetto o confermato di COVID-19 deve indossare DPI adeguati, consistenti in filtranti respiratori FFP2 (utilizzare sempre FFP3 per le procedure che generano aerosol), protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti).”

Appare evidente che non tutte le indicazioni concordano: i sindacati fanno riferimento alla circolare ministeriale, le Aziende sanitarie hanno invece diffuso protocolli ottimistici, fondati sull’indicazione dell’ISS… certamente motivati anche dalla carenza di mascherine con più elevato grado di protezione.

Ma era possibile essere più previdenti?

Ricordo che nel corso di un Congresso chirurgico, tenutosi a Treviso nel lontano 2004, un infettivologo “profetizzò” su una grave pandemia che si sarebbe verificata nell’arco di pochi decenni. Dubito che l’infettivologo fosse un profeta improvvisamente ispirato da Dio: aveva indubbiamente in mente la SARS, manifestatasi nel 2003. E probabilmente riportò quanto in determinati ambienti si riteneva prevedibile che potesse accadere. Quindi, buona prevenzione sarebbe stata non solo di preoccuparsi nel propagandare la vaccinazione anti-influenzale, al fine di evitare i picchi di accesso in ospedali sempre meno ricettivi per la riduzione dei posti letto, ma soprattutto di provvedere ai più adeguati preparativi nell’attesa della pandemia, in particolare immagazzinando presidi protettivi e allestendo ambienti di espansione per speciali emergenze ospedaliere.  Essendo questa affermazione fondata sul “senno del poi”, non sarebbe corretto colpevolizzare, ma è certo che dovrà esservi l’impegno di attuare un adeguato piano preventivo per ulteriori analoghi, prevedibili, eventi.

 

Nota 1 -Sia chiaro: questa osservazione non sia pretesto per rinunciare alle vaccinazioni di legge. Infatti, un’astensione dalle vaccinazioni a macchia di leopardo consentirebbe il manifestarsi di infezioni in età adulta (ed eventualmente in gravidanza) tra i non vaccinati; un’età in cui il decorso clinico può essere meno benigno che in età infantile.

 

Bibliografia

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