Presento un’impulsiva e perciò inevitabilmente un po’ acerba riflessione, inviata nel 2008 all’Ordine dei Medici della provincia di Venezia. Mi aveva impressionato la vicenda milanese della Casa di Cura “Santa Rita”. Ma era sorprendente più l’eccesso raggiunto, che lo “spirito del gioco”, percepibile anche in altri ambienti chirurgici.
“Egregi colleghi,
tra le categorie professionali quella medica è sempre stata tra le più filantropiche, dunque tra le più nobili per purezza di ideali e di umanità insita nella vocazione professionale della maggior parte di coloro che la rappresentano.
Detto questo e nonostante questo, considerando che i medici appartengono alla variegata umanità, non dovrebbe sorprenderci che nel famoso romanzo “La cittadella” il medico scrittore Cronin attribuisca al protagonista, l’onesto dott. Manson, la seguente accusa nei confronti dei suoi colleghi inglesi:
“Che dire della caccia alle ghinee, delle operazioni non necessarie, delle miriadi di preparati pseudoscientifici che usiamo?”
Erano i primi decenni del ‘900; da allora molto è cambiato: gli interessi economici sono stati ridimensionati e le avanzate conoscenze scientifiche consentono ai medici di evitare di fondare la loro autorevolezza su formalismi e ciarlatanerie, come accadeva in passato.
Tuttavia i recenti fatti di Milano rivelano una spiacevole verità: la variegata strutturazione morale della società, per la quale non esiste esclusivamente l’uomo moralmente integerrimo o il suo contrario, si riflette nell’ambito di ogni categoria professionale. Tra i due estremi – l’essere onesto e l’essere criminale – il maggior numero degli individui che compongono la società si dispone in fasce intermedie non nettamente separabili, come sono le sfumature di grigio intermedie tra il nero e il bianco. E se attribuiamo al criminale il colore nero e al cittadino integerrimo il colore bianco, è evidente che esisterà anche una determinata tonalità grigio scuro, corrispondente a coloro che sono disposti a ottenere un vantaggio personale con azioni che ledono la dignità o l’integrità umana solo se esse sono necessarie per i loro scopi e non facilmente perseguibili. Diversamente essi si comportano correttamente. Considerata l’esistenza di questa categoria di persone, appare evidente che deve essere cura delle Istituzioni evitare sistemi organizzativi anche in ambito sanitario in cui si manifestino facilmente opportunità tali da suscitare azioni di questo tipo.
Focalizzando l’attenzione all’ambito chirurgico, i fatti di Milano, certamente non circoscritti a questa località, indicano che l’esecuzione di interventi chirurgici impropri per interessi economici, di prestigio, di carriera o anche per soddisfare la pulsione di esercitare la propria manualità non è un’attività solo ipotetica e senza conseguenze: essa comporta lesioni ai pazienti in cui poteva essere sostituita con maggior beneficio da terapie non o meno invasive, comporta un significativo danno economico e seleziona personaggi privi di scrupoli ai vertici della gestione ospedaliera. (…)
E’ evidente che solo trovando il modo di deconnettere l’attività operatoria da ogni interesse si garantisce correttezza di cura al paziente. In questa prospettiva appare importante distribuire l’attività operatoria a tutto il personale chirurgico secondo turni settimanali programmati – allo stesso modo di quanto usualmente previsto per l’attività assistenziale e ambulatoriale – in modo che essa non sia un elemento di privilegio capace di innescare interessi di prestigio o di carriera, ma che sia solo un dovere professionale.
Tuttavia, la soluzione di equidistribuire l’attività chirurgica non è conciliabile con il sistema libero-professionale, diffusamente radicato nelle strutture sanitarie private; e, per quanto riguarda le strutture sanitarie pubbliche, si scontra con la volontà delle amministrazioni e delle direzioni ospedaliere, che continuano a vedere nel direttore o in un ristretto numero di chirurghi scelti sovente con un criterio di anzianità o di vassallaggio al direttore, sovraordinato a capacità e ad attitudine, i depositari dell’attività operatoria in qualità di primo operatore.
Come è spiegabile questo atteggiamento?
Una possibile risposta per difendere l’attuale organizzazione è che la categoria dei chirurghi non avrebbe ancora raggiunto la maturità per espletare i suoi impegni professionali in modo omogeneo. Questa affermazione non scalza tuttavia l’evidenza che la presenza di capelli bianchi non è sinonimo di qualità, benchè sia emotivamente rassicurante. E indica che è comunque opportuno un rinnovamento dell’organizzazione del lavoro chirurgico. Sarebbe sufficiente che le amministrazioni ponessero al candidato alla direzione dell’Unità Operativa chirurgica, al momento dell’attribuzione dell’incarico, la condizione di istruire nelle procedure operatorie il personale medico non ancora dotato di completa autonomia operatoria, consentendo entro un triennio la formazione di un’equipe in grado di avere piena autonomia operatoria nell’ambito delle procedure chirurgiche, che il servizio intende fornire all’utenza, con a capo un direttore responsabile della correttezza delle indicazioni operatorie. A questa azione sarebbe importante affiancare un’opera di aggiornamento tramite simposi organizzati dai dipartimenti chirurgici che consentano un confronto di idee con gli ambienti universitari sulle indicazioni ai trattamenti chirurgici e alle terapie integrate particolarmente nel settore oncologico.
Un’ulteriore garanzia di qualità potrebbe essere fornita dalle aziende sanitarie, istituendo per i casi di maggior complessità diagnostico-terapeutica, un ambulatorio di consultazione in ogni Unità Operativa chirurgica, tramite il quale un cittadino possa ricevere dietro specifico compenso una relazione clinica riportante in modo accuratamente analitico e documentato con bibliografia il razionale della scelta terapeutica che si intende adottare. Questa relazione dovrebbe essere frutto di un’elaborazione collegiale e multidisciplinare sulla scorta della documentazione fornita dal paziente e delle indagini consigliate dallo specialista al momento del primo accesso ambulatoriale.
Ritengo che queste siano valide soluzioni per avere un giorno una classe chirurgica affidabile e di eccellente qualità tecnica, oltre che per garantire maggiore correttezza delle indicazioni operatorie, con il risultato di un miglioramento della qualità delle cure e di una riduzione dei costi in Sanità.
Questa è anche la via per rispettare una categoria di professionisti – i Chirurghi – per i quali l’attività operatoria entra nella definizione della loro qualifica e dunque non può essere resa – in contrasto con quanto affermato nell’art. 4 della Costituzione – strumento di potere, medaglia d’anzianità o mezzo per giustificare la più elevata retribuzione connessa all’anzianità di servizio, riservandola ad alcuni e rendendola inaccessibile o occasionalmente accessibile ad altri che richiedono di svolgerla, come attualmente si verifica negli ospedali italiani. Insistere su questa strada significherà disincentivare sempre più i giovani medici a intraprendere un percorso professionale che è impegnativo per sè, ma che diventa soffocante se è ostacolato dall’umana insipienza.”