LA GASTRECTOMIA - CAPITOLO 10.8

COMPLICANZE: PANCREATITE ACUTA

La pancreatite acuta si manifesta usualmente due – tre giorni dopo l’intervento. Se ne distingue una forma lieve, edematosa, e una forma grave, necrotica. Nelle pancreatiti di varia eziologia una proteina C reattiva > 100 mg/L indica una necrosi pancreatica con sensibilità del 95% (Büchler, 1986), ma la stessa severità del quadro clinico induce a sospettarla. Gli indici di gravità secondo Ranson non sono applicabili in toto in caso di pancreatite postoperatoria. Tuttavia l’esame di alcuni parametri orienta alla gravità della pancreatite, in particolare l’età avanzata, una pO2​ < 60 mmHg e una calcemia bassa. L’evidenza di necrosi alla TC depone per una forma grave.

L’esordio di una pancreatite è suggerito da una raccolta abbondante nei sacchetti connessi ai drenaggi e da persistente ileo con dolorabilità addominale e scadimento delle condizioni generali. La diagnosi è determinata dal riscontro di un’elevata concentrazione di amilasi nel secreto endo-addominale e di un’amilasemia superiore a 1000 U/dL. Considerando che nei giorni seguenti all’intevento i rilievi clinici non sono specifici per la diagnosi di pancreatite o di lesione pancreatica, è buona norma effettuare questi dosaggi 48-72 ore dopo l’intervento. Se l’amilasemia non è aumentata, il riscontro di un’elevata concentrazione di amilasi nel secreto drenato è correlabile a una trasudazione di secreto pancreatico o a una fistola pancreatica, ma non a una pancreatite. L’amilasemia è il più noto marcatore di pancreatite, ma non è un ottimo marcatore, poiché scende rapidamente dopo 24 h e falsi negativi sono documentati nel 10% dei casi (Spechler, 1983). Sono state perciò proposte ulteriori indagini di laboratorio: il rapporto

(amilasi urinaria x Cr sierica)/(amilasi sierica x Cr urinaria) x 100

è indicativo di pancreatite se > 5%. La lipasemia ha una sensibilità e una specificità del 90% (Ventrucci, 1989): aumenta nella pancreatite, ma talora anche in caso di infarto intestinale e di colecistite acuta.

Tra le indagini strumentali diagnostiche nel postoperatorio è sostanzialmente utile solo la TC con mezzo di contrasto, che evidenzia un aumento della densità del grasso peripancreatico e un aumento volumetrico con disomogenea densità del pancreas. La TC consente anche di stadiare la pancreatite, di guidare il prelievo percutaneo per coltura in caso di stato settico (Gerzof, 1987; Van Sonnenberg, 1989) e di ricercare l’eventuale presenza di una coledoco-litiasi ostruente, possibile fattore eziopatogenetico di una pancreatite.

L’Rx torace fornisce dati aspecifici (atelettasia basale, versamento pleurico) e pure l’Rx addome, che nell’individuo con funzione intestinale normale e pancreatite rivela segni di ileo settoriale (C duodenale, ansa digiunale “sentinella”, distensione del colon trasverso) non presenta nel postoperatorio segni orientativi per la diagnosi di pancreatite.

Una pancreatite edematosa ha una prognosi generalmente benigna, per cui questa trattazione sarà focalizzata sulle forme di maggior impegno terapeutico.

La mortalità nelle pancreatiti necrotiche di varia eziologia in rapporto al trattamento è:

– necrosi infetta; trattamento chirurgico: 40%;

– necrosi infetta; esclusivo trattamento medico: 100%;

– necrosi sterile; resezione pancreatica: 30%;

– necrosi sterile; necrosectomia: 13%;

– necrosi sterile; esclusivo trattamento medico: 9% (Bradley, 1996).

La principale causa di morte nella prima settimana è l’ARDS, successivamente l’infezione. La possibilità di infezione della necrosi è proporzionale alla quantità di necrosi e l’incidenza è massima durante la terza settimana. I microrganismi che contaminano la necrosi provengono dal colon attraverso la parete intestinale. Il materiale purulento può scendere lungo la doccia parieto-colica destra e/o sinistra, infiltrarsi tra i foglietti del mesentere e del mesocolon trasverso, poi entrare nel cavo peritoneale. E’ possibile la formazione di aneurismi settici dell’arteria splenica, gastro-duodenale e colica media. L’evoluzione è verso lo shock settico, l’IRA e l’ARDS. Il solo trattamento medico non è in grado di impedire il decorso verso l’exitus.

Considerato che inizialmente la necrosi è sempre sterile, il trattamento è innanzitutto medico. La flogosi retroperitoneale e peritoneale comporta un notevole trasudazione di liquidi dai capillari. Per contrastare la disidratazione è dunque necessario somministrare fino a 5-6 L di liquidi/24 h in assenza di insufficienza cardiaca e/o renale e in rapporto ai valori della pressione venosa centrale. Di questo volume circa 2 litri serviranno per veicolare i nutrienti della NPT. Di particolare importanza è il mantenimento della diuresi con diuretici e con dopamina 3microg/Kg/min in infusione continua. Possono manifestarsi ipopotassiemia e ipocalcemia, che sono trattate con infusioni parenterali. Dettagli sul trattamento dell’ipopotassiemia sono riportati nel capitolo 9. In caso di dolore significativo sono necessari analgesici come la meperidina o un’anestesia peridurale, evitando morfina e derivati, che riducono l’efflusso del secreto pancreatico, aumentando la tonicità dello sfintere di Oddi. Un’efficace analgesia contribuisce a risolvere più precocemente l’ileo paralitico. Eparina sodica e plasma intero fresco sono indicati in caso di anemizzazione secondaria a CID. La digossina è utile nell’anziano per il suo effetto inotropo positivo sul miocardio alla dose di 0,25 mg ev in 10 ml di soluzione fisiologica in monosomministrazione giornaliera con periodico controllo della digossinemia. In caso di conclamata insufficienza cardiaca diventa necessaria la dobutamina, che agisce più rapidamente della digossina. Se prevale la componente vascolare nell’eziologia dello shock è preferibile la dopamina alla dose di 5-7 microg/Kg/min. L’utilità degli antibiotici a scopo profilattico è stata controversa (Pederzoli, 1993; Luiten, 1995). Attualmente essi sono raccomandabili, ma  trattamenti profilattici prolungati espongono al rischio di pseudocolite membranosa o infestazione da Candida. Una necrosi estesa a più del 30% del parenchima e raccolte fluide peripancreatiche sono elementi che rendono particolarmente raccomandabile l’antibioticoprofilassi. Nel caso specifico della pancreatite postoperatoria può essere opportuno modificare il trattamento antibiotico in corso, scegliendo gli antibiotici con migliore penetrazione nel tessuto necrotico del pancreas: i carbapenemici (imipenem, meropenem) e alcune cefalosporine di III generazione (cefotaxime, ceftazidime). L’utilità degli inibitori delle proteasi (gabesato mesilato) non è dimostrata. L’octreotide è somministrato alla dose di 0,1 mg sc ogni otto ore per il suo effetto inibitore sulla secrezione acinare del pancreas. O2 o ventilazione con pressione positiva di fine espirazione sono i presidi in caso di ARDS.

L’approccio chirurgico è indicato in caso di emorragia intraperitoneale, di perforazione intestinale e di infezione della necrosi.

L’emorragia è infrequente nel corso di una pancreatite e necessita di un’emostasi per via laparotomica.

Le perforazioni intestinali e le deiscenze anastomotiche sono invece discretamente frequenti e si verificano per l’effetto lesivo degli enzimi pancreatici attivati sulla parete intestinale. L’ingresso del secreto pancreatico nel cavo peritoneale è caratteristico delle pancreatiti dopo interventi che comportano l’incisione del peritoneo parietale posteriore, come la gastrectomia. Le perforazioni del colon e le deiscenze anastomotiche a livello esofageo o duodenale hanno una prognosi molto peggiore delle perforazioni localizzate nel piccolo intestino. Se tecnicamente fattibile, ogni segmento intestinale perforato deve essere abboccato alla cute in attesa che si esaurisca la flogosi peritoneale.

L’infezione della necrosi è la terza indicazione assoluta all’approccio chirurgico. In pratica, l’indicazione alla laparotomia esplorativa e alla toilette chirurgica si pone quando dopo un miglioramento clinico compare febbre superiore a 38,5°C, leucocitosi ed evidenza tomografica di aree pancreatiche avascolari con raccolte peri-pancreatiche; un dato ausiliario è l’individuazione di microrganismi all’esame microscopico o colturale su materiale peripancreatico raccolto per via percutanea tramite agoaspirazione con guida TC. La laparotomia può essere una scelta prudenziale anche nei casi in cui non vi sia evidenza di necrosi alla TC o di crescita batterica nelle colture, ma vi sia un progressivo deterioramento delle condizioni cliniche, nonostante un trattamento medico adeguato e nonostante l’assenza di altre cause di stato settico (infezioni polmonari o urinarie, sepsi da CVC, deiscenza anastomotica). Infatti, in questi casi è talora evidenziata durante l’intervento una raccolta purulenta in fase iniziale e si assiste a un beneficio clinico dopo la sua evacuazione.

Dopo la necrosectomia e la toilette del cavo peritoneale vi sono due opzioni, per concludere l’intervento:

1°: posizionamento di drenaggi multipli a caduta (Altemeier, 1963) o in aspirazione. La mortalità postoperatoria è del 30% nelle pancreatiti di varia eziologia. La recidiva dell’infezione è frequente e ulteriori laparotomie possono essere necessarie. In questo caso per ridurre il traumatismo, può essere indicato il posizionamento TC guidato di altri drenaggi.

2°: drenaggio con lavaggio postoperatorio (Gebhardt, 1981; Beger, 1988); consiste nel posizionamento di due ampi tubi in sede pre- e retro- pancreatica per il lavaggio con 50 L/die di soluzione bilanciata: (2L/15 minuti, tenuti in addome 30 minuti, chiudendo i drenaggi). La procedura è ripetuta ogni ora (Ranson, 1990).

Appare ragionevole utilizzare il drenaggio chiuso in caso di necrosi < 100 g e il drenaggio con lavaggio in caso di più estesa necrosi (Bradley, 1999). La laparostomia e la lombostomia non sono invece proponibili dopo gastrectomia: le anastomosi esposte sarebbero ad alto rischio di fistolizzazione e lo stress aggiuntivo della laparostomia esporrebbe un paziente già provato dalla malattia di base e da una gastrectomia a un elevato rischio di CID e di insufficienza cardio-circolatoria.

Una forma di infezione diversa dalla necrosi infetta è l’ascesso pancreatico, che deriva dall’infezione di una pseudocisti o di una necrosi parenchimale colliquata e circoscritta da tessuto fibroso reattivo. L’ascesso pancreatico è ben delimitato e compare almeno cinque settimane dopo l’esordio della pancreatite. Una sua possibile evoluzione è la rottura nel cavo peritoneale con conseguente shock settico. In caso di ascesso pancreatico è indicato posizionare inizialmente per via percutanea sotto guida ecografica un pigtail. Poiché spesso l’ascesso è multiloculato, frequentemente il drenaggio percutaneo non è risolutivo ed è necessaria l’evacuazione della raccolta per via laparotomica.

La più frequente sequela della pancreatite postoperatoria è la formazione di una pseudocisti. Se la pseudocisti è inferiore a cinque centimetri sarà ecograficamente controllata periodicamente; se il suo diametro supera i cinque centimetri è teoricamente indicato il drenaggio interno nel duodeno o in un’ansa digiunale almeno cinque settimane dopo la diagnosi. Infatti, questo è l’intervallo di tempo in cui può verificarsi il riassorbimento della pseudocisti (Bradley, 1979) o in caso contrario la formazione di una parete abbastanza solida da consentire un’anastomosi pseudocisto-intestinale. L’astensione dal trattamento chirurgico espone al rischio di complicanze tardive, ma nel processo decisionale deve essere attentamente considerato lo stato di salute del paziente e le difficoltà tecniche correlate agli esiti della gastrectomia.

Occasionalmente, all’interno di una pseucocisti può manifestarsi un’emorragia in seguito alla rottura di un’arteria pancreatico-duodenale o dell’arteria splenica: la pseudocisti diventa uno pseudo-aneurisma espansivo destinato a rompersi nel cavo peritoneale o nel dotto di Wirsung. Il trattamento conservativo di questa forma di emorragia è associato a mortalità molto elevata. L’embolizzazione transarteriosa è efficace, ma solo transitoriamente. Il trattamento definitivo è la resezione pancreatica o la legatura agli estremi dell’arteria splenica, se essa è la fonte del sanguinamento.

Un’altra possibile sequela della pancreatite acuta è l’ascite pancreatica, che si manifesta se la necrosi interessa il dotto pancreatico. Dopo gastrectomia la comparsa di un’ascite pancreatica è impedita dalla presenza dei drenaggi, che consentono di drenare all’esterno la secrezione. Una secrezione pancreatica può essere osservata anche in seguito a una lesione del dotto pancreatico, se la gastrectomia è associata a una resezione spleno-pancreatica. In entrambi i casi il trattamento comprende NPT e octreotide (0,1-0,2 mg sc x 3/die). Se il drenaggio non è ottimale, due o più pigtail sono posizionati per via percutanea sotto guida ecografica. Il trattamento conservativo è proseguito per tre – quattro settimane ed è seguito dal trattamento chirurgico, qualora il versamento non sia regredito dopo questo intervallo di tempo. Prima del trattamento chirurgico è essenziale stabilire la sede della rottura con l’ausilio della pancreatografia o della wirsung- RMN (Wright, 2000). Le possibilità variano da una resezione della coda pancreatica, se la lesione è distale, a una pancreatico-digiunostomia preferibilmente con ansa in Y.

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