Fig. 1

di Enrico Ganz

 

In questo scritto propongo alcune osservazioni su un plico, risalente alla prima metà del XVII secolo, da me recentemente rinvenuto e acquistato. Il mio interesse è stato inizialmente suscitato dall’essermi stato proposto come plico con segni di sanificazione attuata in periodo di peste. Il plico fu infatti inviato da Firenze in data 20 maggio 1631, un periodo in cui la città era percorsa dalla peste: la malattia si era manifestata ai primi di agosto 1630 ed ebbe termine nel 1632, causando circa 9000 decessi. Ma nel caso specifico di questa lettera, più che l’ipotetica sanificazione postale, mi ha attratto la firma “deMedicj”. Il destinatario è tal dott. Flavio Paolozzi in Casteldurante (Fig. 4). Anche questo indirizzo mi era apparso interessante.

Il testo della lettera è il seguente:

 

Al molto mag:° sig.re et Dottore

Flavio Paolozzi

Casteldurante

Molto mag:°: sig:re io ho sentito quanto ella ha scritto à mè con le due sue piene lettere de 22., et de 24. inviate al Balì Cioli, si come sento di mano in mano tutto quel, ch’ella scrive à lui, et veggo, che non le mancano de fastidij.

In proposito del sale, ella avvertirà molto bene, che l’heredità non possa ricevere pregiudizio dalla pretensione della Camera, essendo molto chiaro il convenuto circa esso nella concordia, come ella haverà veduto, e quanto al temperamento, che ella haveva accordato col computista Cupis, ella doverà avere procurato, ò che non restasse à dietro lo sborso del contante, ò che ne fosse bene assicurata la rescossione, et si sarebbe disiderato, che con questo sale si fosse compreso nel partito tutto l’altro, che si ritrova già provisto per lo Stato, potendosi persuadere, che per la necessità dovessero ,i, Ministri Camerali pigliarlo, et a noi complica dar loro più tosto questo, che quello, che non era ancora scarico, et che era più facile à condurlo per acqua altrove, che havendo preso quello non saranno nella urgenza di pigliar questo, et ce ne faranno peggior condizione.

Di quel che si desidera in questa Casa dalla s:ra Duchessa, inteso, che ella haverà il motivo principale di quanto importi alla reputazione del Gran Duca, che d:a s:ra Duchessa possa stare in quel posto, che richiede la sua dignità di essere Principessa Grande, et si può dir Madre della Gran Duchessa di Toscana, non haverà più indugiato à presentare le lettere, che se le inviarno, et à eseguire tutto quel più, che poi anche con le altre se le ,è, ordinato, et questo ,è, negozio, che conveniva, che ella ha trattato immediatamente con la s.ra Duchessa, come haverà poi fatto, et ne stiamo aspettando tutti con desiderio la relazione. Il possesso del Poggio di Berni era già stato preso dal fattore, con molta diligenza, et mandatone quà l’Instrum.to, et quanto à quello di Castelvecchio, si aspetta d’intender da lei, che sia seguito il medesimo, come di tutti gli altri beni, che fossino restati à dietro; et se la Communità di Fossombrone pretenda ragione alcuna sopra il Banco, come viene di là avvisato, sarà poi udita dopo, che l’herede ne sia in possesso, come vogliono le leggi, et questo s’intende anche per ogn’altro pretensore sopra qualunch’altra cosa. 

Fig. 2

Haveremmo caro tutti di questa Casa, che il neg.o del Legato della famiglia restasse accomodato con sodisfazione, et quiete di tutti; et possano l’una, et l’altra famiglia accordarsi à ricorrere a Mons.re Lou:re giuntamente, senza introdurne forma di letigio, et mentre questo non segua, si potrebbe intanto depositare il denaro in mano del Mons:re Lou.re, ò di chi egli giudicasse a proposito, acciò si potesse poi venire quanto prima all’essecuzione del Legato, meritando di essere molto compatiti quelli, che hanno benservito il G. Duca, et con tanta assiduità, et pacienza, et qui [?] così fatti Legati non sono tocchi ad’altri, che a ,i, serv.ri dei Gran Duchi defunti, et non altrimenti della GranDuchessa; ma però ella andrà adagio a dar fuori questo essempio, perche meglio sarà, che sia dichiarato per giustizia, à finché non paia alla G. Duchessa, che inciò le siamo stati contrarij. Dispiace à tutti di sentire, che restino à dietro ,i, conti dei fattori, et che siano forse tutti debitori di somme grosse, et converrà, che di questa negligenza rendino ragione il Mro. dell’Entrate, il Mro. di Casa, et chiunch’altri ne habbia haccesso la soprintendenza, et haveremo caro, ch’ella ci mandi nota di tutto, et anche di grani, che siano rimasti indisposti dopo la morte del G. Duca.

Io approvo l’amorevolezza usata da lei ai soldati di ? Guardia, et altro non habbiamo, che replicare alle sud.e sue, se non che si ,è, richiamato il Can.re Poltri, poiche non ha potuto passare, et si ,è, scritto à Roma, et anche a Città di Castello, per poterci mandare un Computista da Siena, acciò V.S. possa tornare al suo carico in buona stagione, rimettendomi nel resto à quel, che le ho scritto, et sia per scriverle il Balì Cioli et il sig.re Laprosperi. Da Fiorenza 20 Maggio 1631

                                                                           Amorevole di N.S.

                                                                           [?] deMedicj

s.re Flavio Paolozzi 

 

Fig. 3

Analisi del contenuto

Tra i personaggi citati nella lettera troviamo il balì Andrea Cioli (1573-1641), personalità di rilievo nella storia del Granducato di Toscana, segretario del granduca Ferdinando II de’ Medici. 

Non espressamente nominati sono il granduca, il granduca defunto, la duchessa che l’autore della lettera indica dover essere tenuta in considerazione come “grande principessa e madre della granduchessa di Toscana”, e tale granduchessa. Per tentare di comprendere chi siano questi personaggi, tenendo conto che la lettera è indirizzata in un paese prossimo alla città di Urbino, potrebbe essere utile ricordare i componenti della famiglia de’ Medici di quel periodo, i legami parentali con i reggenti del Ducato di Urbino (Nota 1) e chi fosse il destinatario della lettera. 

La storia ci dice che l’ultimo duca di Urbino fu Francesco Maria II delle Rovere. Dopo essere rimasto vedovo senza avere figli, nel 1599, all’età di cinquant’anni, egli si risposò a Casteldurante con la quattordicenne Livia Della Rovere, al fine di assicurare una continuità familiare al Ducato. Dal matrimonio nacque Federico Ubaldo (1605-1623). Il padre ritenne prudente introdurre quanto prima Federico Ubaldo nel governo del Ducato, sicché nel 1621 abdicò, per lasciarne l’amministrazione al figlio sedicenne. Nello stesso anno Federico Ubaldo era stato costretto a sposare Claudia De’ Medici (1604-1648), figlia del granduca di Toscana Ferdinando I (1549-1609) e di Cristina di Lorena (1565-1636), quest’ultima figlia del duca Carlo III di Lorena. Federico Ubaldo ebbe una figlia, Vittoria, nata il 7 febbraio 1622. La sua reggenza fu breve: morì tra il 28 e il 29 giugno 1623 a Urbino all’età di soli diciotto anni al culmine di un percorso di ribellione ai doveri impostigli dal padre. Infatti, la sera del 28 giugno si fece provocatoriamente notare in compagnia della sua amante Argentina, di professione attrice, e diede indecoroso spettacolo, portandosi sulle spalle i commedianti ad imitazione di un cavallo e rovesciando a terra un carico di stoviglie. Questa serata di eccessi si concluse tragicamente: al mattino fu trovato senza vita, riverso sul letto con la “bava alla bocca”, verosimile segno di regurgito gastrico, verificatosi in stato di ubriachezza. I cronisti annotano la disperazione della madre e l’apparente indifferenza del padre alla morte del figlio con diverse interpretazioni di tale riservato atteggiamento. E’ comunque certo che Francesco Maria II dovette rinunciare al suo progetto, dovette riappropriarsi del ruolo di reggente, dovette valutare i rapporti di forza esistenti tra gli Stati circostanti e in data 30 aprile 1624 concordò con il Papa la cessione del Ducato di Urbino allo Stato della Chiesa alla sua morte.

Francesco Maria II morì il 23 aprile 1631. Per i suddetti accordi, in data 12 maggio 1631, i territori del Ducato, esclusi i beni allodiali della famiglia Della Rovere, furono inglobati nello Stato pontificio. 

Queste notizie indicano che vi era una parentela tra i reggenti del Ducato di Urbino e i reggenti del Granducato di Toscana. Così, laddove nella nostra lettera si legge: “haveremo caro, ch’ella ci mandi nota di tutto, et anche di grani, che siano rimasti indisposti dopo la morte del G. Duca”. possiamo comprendere che il riferimento è al defunto duca di Urbino Francesco Maria II delle Rovere.

La parentela de’ Medici – Della Rovere è verosimilmente coinvolta nell’accenno all’eredità, citata dal de’ Medici autore di questa lettera.

Le qui riportate notizie storiche orientano anche a pensare che la morte del duca Francesco Maria II Della Rovere sia in relazione ai “fastidij” comunicati dal dott. Paolozzi al de’ Medici, autore di questa lettera, con “le piene lettere de 22. et de 24.” inviate al balì Cioli, e con altre lettere inviate al balì e dal balì girate al de’ Medici. Il decesso del duca avvenne infatti tra queste due giornate, il 23 aprile 1631. 

Tentiamo ora di identificare gli altri personaggi.

All’epoca della lettera, in Firenze governavano in Consiglio di reggenza, per conto del giovane Ferdinando II de’ Medici, due granduchesse (Nota 1). La più anziana era Cristina di Lorena (1565-1636), che era stata moglie di Ferdinando I de’ Medici (1549-1609) e madre di Cosimo II (1590-1621), personaggio di spicco nella storia del Granducato di Toscana, granduca tra l’altro anche noto per la protezione offerta a Galileo Galilei. Dopo la morte di Cosimo II ella restò al potere con la nuora, la granduchessa Maria Maddalena d’Austria (1587-1° novembre 1631), sorella dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo (1578-1637) e con il giovane nipote, Ferdinando II de’ Medici (1610-1670), figlio di Cosimo II e di Maria Maddalena, granduca di Toscana dal 1621. Nel 1626 esse adottarono Vittoria della Rovere (1622-1694). Vittoria era la nipotina del duca di Urbino, Francesco Maria II delle Rovere ed era anche loro parente, avendo per madre la duchessa Claudia de’ Medici. La necessità di accudire la fanciulla derivò dall’esigenza di Claudia, vedova, di sposarsi con Leopoldo V d’Austria (1586-1632) – fratello della cognata Maria Maddalena -, per sostenere la discendenza nobile nell’arciducato d’Austria. Nel 1626 l’arciduchessa Claudia abbandonò definitivamente la corte medicea. Vittoria, trasferitasi nel 1623 alla corte dei de’ Medici con la madre Claudia, dal 1626, all’età di quattro anni, rimase dunque senza la madre e fu educata sotto la sorveglianza delle due granduchesse; nel 1637 diventò moglie di Ferdinando II e alla morte del marito, nel 1670, affiancò suo figlio Cosimo III nella reggenza del Granducato. 

Ci resta infine da considerare Livia Della Rovere (1585-1641), la duchessa di Urbino, vedova dell’anziano duca di Urbino Francesco Maria II. Alla morte del marito le fu negato il governo di Pesaro e di Jesi e dovette accontentarsi di Rocca Contrada, di Corinaldo e di San Lorenzo. Fissò la sua dimora nel feudo paterno di Castelleone di Suasa, dove visse piuttosto appartata. Livia restò quindi esclusa dalla cerchia familiare de’ Medici, ma continuerà a ricevere affettuose lettere dalla nipotina Vittoria, che dimostrava di essere più affezionata a lei che alla madre Claudia. Solo nel 1637 Livia otterrà un placet pontificio per recarsi a Firenze, per un saluto alla nipote. Alla sua morte, avvenuta nel 1641 a Castelleone di Suasa, lasciò in eredità a Vittoria i suoi beni, ovvero i beni allodiali della famiglia Della Rovere. 

Queste notizie hanno lo scopo di fornire un orientamento, per definire i nominativi dei personaggi citati nella lettera. La loro identificazione non è comunque semplice. Per esempio, laddove è scritto “Di quel che si desidera in questa Casa dalla s:ra Duchessa, inteso, che ella haverà il motivo principale di quanto importi alla reputazione del Gran Duca” si potrebbe pensare al granduca Ferdinando II, ma è forse possibile escludere categoricamente che si tratti del duca defunto di Urbino, Francesco Maria II, nominato per rispetto “Gran Duca”?

 Analogamente non mi è facile riuscire ad attribuire con certezza un nome alla duchessa e alla granduchessa citate. Per la duchessa potrebbe venirci in mente il nominativo di Claudia de’ Medici, ma si deve considerare che nel 1631 ella aveva già un altro titolo: era arciduchessa nell’arciducato d’Austria; e qui vi si era trasferita. Non può neppure esservi un riferimento a una neonominata duchessa di Urbino, poiché nel maggio 1631 il ducato di Urbino era ormai decaduto come entità ducale. Potrebbe allora trattarsi di Vittoria Della Rovere, che nel 1623, all’età di un anno e mezzo, per volontà delle granduchesse e dalla madre era stata “fidanzata” con il tredicenne Ferdinando, quindi predestinata per patto dinastico a diventare sua moglie e granduchessa? Alla data di questa lettera Vittoria aveva nove anni e viveva presso la corte medicea; sembra quindi improponibile ipotizzare che un de’ Medici si riferisse a lei, accennando al Paolozzi di un “negozio, che conveniva, che ella ha trattato immediatamente con la s.ra Duchessa”. E’ infine da considerare la duchessa di Urbino Livia Della Rovere (1585-1641), vedova di Francesco Maria II: che il de’ Medici si riferisca a lei è ben possibile, considerando che dal contesto dello scritto sembrerebbe trattarsi di una persona esterna alla Casa de’ Medici, con la quale il dialogo avviene con l’intermediazione del Paolozzi, domiciliato a Casteldurante, laddove vi era una delle residenze ducali frequentate dalla duchessa: “non haverà più indugiato à presentare le lettere, che se le inviarno, et à eseguire tutto quel più, che poi anche con le altre se le ,è, ordinato, et questo ,è, negozio, che conveniva, che ella ha trattato immediatamente con la s.ra Duchessa, come haverà poi fatto, et ne stiamo aspettando tutti con desiderio la relazione”.

Un ulteriore problema è l’identificazione della granduchessa citata, laddove il de’ Medici scrive: “così fatti Legati non sono tocchi ad’altri, che a ,i, serv.ri dei Gran Duchi defunti, et non altrimenti della GranDuchessa”. Si tratta di Maria Maddalena d’Austria o di Cristina di Lorena? Possiamo solo far notare che nel maggio 1631 Maria Maddalena  stata preparando un viaggio per raggiungere a Vienna il fratello, l’imperatore Ferdinando II. La granduchessa partì nel settembre di quell’anno. Morì a Passavia (Passau) il 31 novembre dopo essersi fermata a Innsbruck nella residenza di Leopoldo V – altro suo fratello – e della consorte Claudia de’ Medici. Quindi, alla data di questa lettera, nel maggio 1631, a Firenze si trovavano entrambe le granduchesse e non vi è motivo che il de’ Medici ne intenda una, escludendo l’altra, in quanto erano entrambe reggenti del Granducato. Potrebbe allora trattarsi della duchessa Livia Della Rovere, chiamata per rispetto “granduchessa”? Al termine del paragrafo il de’ Medici scrive: “Dispiace à tutti di sentire, che restino à dietro ,i, conti dei fattori, et che siano forse tutti debitori di somme grosse, et converrà, che di questa negligenza rendino ragione il Mro. dell’Entrate, il Mro. di Casa, et chiunch’altri ne habbia haccesso la soprintendenza, et haveremo caro, ch’ella ci mandi nota di tutto, et anche di grani, che siano rimasti indisposti dopo la morte del G. Duca.” Probabilmente il de’ Medici si riferisce al duca di Urbino e quindi la “granduchessa” dovrebbe essere sua moglie, la duchessa di Urbino Livia. 

La lettera mi lascia dunque vari interrogativi con l’orientamento che i nobili ai quali il de’ Medici si riferisce siano i duchi di Urbino Francesco Maria II e Livia Della Rovere. Possiamo comunque comprendere che lo scritto accenna a questioni relative al Granducato di Toscana e a beni allodiali della famiglia Della Rovere, che coinvolgevano anche la famiglia De’ Medici, essendovi accolta sia Claudia De’ Medici, vedova del penultimo duca di Urbino Federico Ubaldo Della Rovere, sia Vittoria Della Rovere, figlia di Claudia e nipote del duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere e di sua moglie Livia Della Rovere.

Uno dei paragrafi più oscuri della lettera è il seguente: “Di quel che si desidera in questa Casa dalla s:ra Duchessa, inteso, che ella haverà il motivo principale di quanto importi alla reputazione del Gran Duca, che d:a s:ra Duchessa possa stare in quel posto, che richiede la sua dignità di essere Principessa Grande, et si può dir Madre della Gran Duchessa di Toscana, non haverà più indugiato à presentare le lettere, che se le inviarno […]”. La mia ipotesi è che il mittente si riferisse alla proibizione che Livia ricevette di trasferirsi alla corte medicea, per assistere la nipotina Vittoria, come vivamente desiderava. Solo in un’occasione, anni più tardi, ella otterrà un lasciapassare, per un breve soggiorno a Firenze, dove trascorse ore liete con lei. Rimane probabilmente volutamente vago il significato di “stare in quel posto che richiede la sua dignità”, essendo la questione nota al destinatario.

Suppongo che vi sia un riferimento a Livia Della Rovere anche laddove è scritto: “ma però ella andrà adagio a dar fuori questo essempio, perche meglio sarà, che sia dichiarato per giustizia, à finché non paia alla G. Duchessa, che inciò le siamo stati contrarij.”

Nella lettera vi è un paragrafo che nomina territori dell’ex Ducato di Urbino: Fossombrone, Poggio Berni e Castelvecchio di Monte Porzio. Fossombrone e Castelvecchio di Monte Porzio passarono sotto il controllo dello Stato della Chiesa. Il de’ Medici accenna a una richiesta inappropriata, avanzata dalla comunità di Fossombrone (“et se la Communità di Fossombrone pretenda ragione alcuna sopra il Banco, come viene di là avvisato, sarà poi udita dopo, che l’herede ne sia in possesso, come vogliono le leggi”), ed è espresso un buon giudizio sulla diligenza del fattore, che ha preso possesso di Poggio Berni. Poggio Berni era un castello nell’attuale omonima frazione in provincia di Rimini, posseduto della famiglia Della Rovere. Il territorio passerà temporaneamente allo Stato della Chiesa e sarà acquisito nel 1634 dal granducato di Toscana in seguito al matrimonio tra Ferdinando II e Vittoria Della Rovere.

Come si spiega questo interessamento del de’ Medici per territori destinati alla sovranità dello Stato della Chiesa? E per quale autorità il de’ Medici afferma che “dispiace à tutti di sentire, che restino à dietro ,i, conti dei fattori, et che siano forse tutti debitori di somme grosse, et converrà, che di questa negligenza rendino ragione il Mro. dell’Entrate, il Mro. di Casa, et chiunch’altri ne habbia haccesso la soprintendenza, et haveremo caro, ch’ella ci mandi nota di tutto, et anche di grani, che siano rimasti indisposti dopo la morte del G. Duca.”? Chi era costui, per contestare negligenza ai due Ministri citati? Era forse un ecclesiastico altolocato della famiglia de’ Medici, curante i distinti interessi dello Stato della Chiesa e della sua famiglia nell’ambito dell’ex Ducato di Urbino?

E’ quindi tempo di chiarire chi siano precisamente il destinatario e il mittente de’ Medici della lettera.

 

Il destinatario

Flavio Paolozzi era membro di una famiglia nobiliare della città di Chiusi; era avvocato e svolse attività diplomatica a Roma per contro della corte papale. Di lui ho ottenuto questa informazione, apparentemente trascurabile: intervenne in una contesa tra abitanti di Città della Pieve e di Chiusi nel 1610. Era accaduto che pastori della Città della Pieve avevano superato con i loro greggi il bastione pievaiolo, ignorando le intimazioni delle guardie di Chiusi. Ne seguì un contrasto verbale e il rifiuto dei pastori di rispettare gli ordini delle guardie. Il governatore di Chiusi ignorò la lettera di protesta del governatore di Città di Pieve, Francesco Boccacci. Il governatore di Città di Pieve inviò allora una lettera informativa al cardinal Borghese, che informò il Papa. Il Papa confidò a monsignor Verospi di aver concesso troppo ai chiusini, che ora ne approffittavano con le prepotenze verificatesi nei confronti dei pastori, suoi sudditi, violando la giurisdizione di Città della Pieve. Monsignor Verospi coinvolse nella vicenda Flavio Paolozzi, essendo originario di Chiusi. Questi scrisse in data 2 dicembre 1610 una lettera diplomatica al Capitano di Giustizia di Chiusi, Guido Beringucci, per acquietare il dissidio.

Questo episodio appare piuttosto banale, come molti altri, che si verificarono in zona, tra i quali ricordo quello di una donna che subì una penalizzazione per il fatto che le guardie chiusine non erano riuscite a sequestrargli il maiale di sua proprietà, avendo questi danneggiato l’argine che a loro parere rientrava nel territorio di Chiusi. Capitò anche alcuni cavalli fossero sequestrati dalle guardie di Chiusi, ritenendoli dannosi per l’argine.

In realtà queste modeste scaramucce sono sintomo di un importante malessere sociale: “la parte più meridionale della Val di Chiana costituì per secoli, almeno dal XIII e sino alla metà del XIX secolo, un rilevante problema territoriale nel quale si interconnettevano vicende legate alla determinazione dei confini, all’equilibrio idrografico e alle bonifiche […]. Un’economia povera, fondata, oltrechè sulla principale risorsa dell’agricoltura, sui prodotti della pesca e sulla raccolta e lavorazione delle erbe palustri, che ostacolava la definizione delle questioni ed esaltava invece le contese tra le popolazioni confinanti” (1). Questo contesto spiega per quale motivo nella questione citata fosse stato scomodato addirittura il Papa e Flavio Paolozzi: in una condizione di estrema povertà diventano potenzialmente destabilizzanti nella società anche questioni che oggi a noi sembrano tali da non dover scomodare le massime autorità statali.

Flavio Paolozzi ebbe anche l’incarico di procuratore dei tutori della piccola Vittoria delle Rovere e intervenne nell’inventariare i beni della famiglia Della Rovere subito dopo il decesso di Francesco Maria II. E’ stato rilevato che egli tenne a Pesaro presso l’apposito “scrittoio” quelle carte che erano utili per la gestione amministrativa dei beni allodiali della famiglia Della Rovere. Infatti, come già accennato in questo articolo, nel maggio 1631, il mese successivo alla morte del duca di Urbino Francesco Maria II, nel rispetto dell’accordo siglato in data 30 aprile 1624, “lo Stato urbinate passò alla Santa Sede con le sue pertinenze, mentre alla principessa Vittoria sarebbero spettati la proprietà, spoglia della giurisdizione, dei beni allodiali della famiglia, comprendenti proprietà agricole, case, palazzi e il principato di Amatrice nel regno napoletano, nonché i mobili, le collezioni d’arte (fra cui quadri di Tiziano e di Raffaello), gli arazzi e i gioielli” (4).

Flavio Paolozzi fu posto anche a capo di coloro che dovettero inventariare e scegliere le carte dell’ex ducato di Urbino, che potevano essere inviate a Firenze, in quanto spettanti alla granduchessa Claudia, vedova del defunto duca di Urbino Federico Ubaldo. Parte delle carte urbinati spettarono invece allo Stato pontificio e sono tuttora conservate nell’Archivio vaticano (4).

In Casteldurante Flavio Paolozzi fu trattenuto nell’ambito dell’impegno per inventariare i beni spettanti ai de’ Medici e a Vittoria Della Rovere (2).

Ricordo infine che risale al 21 maggio 1631, il giorno successivo a questa lettera, una “procura del Cardinale Gessi, uno dei tutori della Granduchessa Vittoria, in persona di Flavio Paolozzi, per trattare i di lei interessi (11). Esistono inoltre lettere di Flavio Paolozzi, Agente in Roma, per gli interessi di Vittoria nell’eredità (11).

 

Lo stile

Riprendendo in mano la nostra lettera e la nostra analisi, possiamo evidenziare il particolare complesso periodare di un nobile vissuto nel XVII secolo, in arte “secolo del Barocco”, e di confrontarlo con la nostra sintassi, sol che si traduca la lettera nel nostro attuale stile. 

Come esempio si può citare il seguente paragrafo

“Di quel che si desidera in questa Casa dalla s:ra Duchessa, inteso, che ella haverà il motivo principale di quanto importi alla reputazione del Gran Duca, che d:a s:ra Duchessa possa stare in quel posto, che richiede la sua dignità di essere Principessa Grande, et si può dir Madre della Gran Duchessa di Toscana, non haverà più indugiato à presentare le lettere, che se le inviarno […]”.

Sembrerebbe che il senso sia:

“Auspico che Lei abbia presentato le lettere che Le sono state inviate, per chiarire quanto nella nostra famiglia si desidera, ovvero che la signora duchessa possa stare in quel posto, che è consono alla sua dignità di essere Grande principessa e, possiamo dire, Madre della granduchessa; inteso che ella potrà prendere atto che in tal modo tutelerà la reputazione del granduca […].

Sul piano grammaticale spicca la particolarità dell’interpunzione: per esempio, si nota che la congiunzione “o” e la “è”, terza persona singolare del verbo “essere”, sono delimitate da virgole strettamente addossate al carattere e di dimensione più contenute delle virgole utilizzate per la normale costruzione sintattica del periodo. La congiunzione “et” non è invece compresa tra virgole, orientando a pensare che fossero compresi tra piccole virgole solo i termini costituiti da una sola lettera. Vi è inoltre un più ampio utilizzo della virgola rispetto alle odierne consuetudini.

La calligrafia è molto curata e spiccano abili tratteggi di pennino, che abbelliscono le lettere. Talvolta, la lettera “e” è scritta con la forma di una “i” priva della punteggiatura e accompagnata da un piccolo cerchio aperto a sinistra, posto a breve distanza dalla lettera  sul suo versante superiore destro. Altra particolarità è il frequento utilizzo del segno di “due punti” nelle abbreviazioni, nelle quali è parimenti utilizzato anche il punto singolo. Così, per es. troviamo sia “sig:re”, sia “sig.re”.


Il mittente

Al termine dello scritto, in continuità dell’ultima riga, troviamo indicata la sede e la data di stesura della lettera: “Fiorenza 20 Maggio 1631”. Sottostante la data troviamo la firma del mittente: […]ano(?)  deMedicj (Fig. 2). La firma è preceduta sul rigo sovrastante da “Amorevole di N.S.”  

Chi potrebbe essere il mittente? Quale ruolo potrebbe avere avuto questo personaggio nella famiglia de’ Medici?

Riprendendo in mano l’enciclopedia Treccani, scopriamo che le granduchesse erano coadiuvate da un Consiglio segreto, composto da “monsignor Giuliano de’ Medici (1574-1636), arcivescovo di Pisa [in carica presso l’arcidiocesi di Pisa dal 1620], dal conte Orso d’Elci, consigliere di Stato, dal marchese Fabrizio Colloredo, maestro di Camera, e dal senatore Niccolò Dell’Antella, auditore della religione di S. Stefano”. Il Consiglio rimase in carica fino al 1627 e Giuliano vi “continuò a partecipare fino al 1626, ma in maniera defilata, allontanandosi, a quanto pare, quando non condivideva le decisioni che vi venivano prese (Treccani, sulla scorta di Arch. di Stato di Lucca, Anziani, 641, cc. 178-179).

La filigrana della carta utilizzata per questa lettera (una croce inscritta in un cerchio) e il definirsi il mittente “Amorevole di Nostro Signore” orientano a una posizione ecclesiastica. Coerente con una sua posizione ecclesiastica è anche il proporre un monsignore quale intermediario in una delle questioni da lui accennate nella sua lettera: “et possano l’una, et l’altra famiglia accordarsi à ricorrere a Mons.re Lou:re giuntamente, senza introdurne forma di letigio, et mentre questo non segua, si potrebbe intanto depositare il denaro in mano del Mons:re Lou.re, ò di chi egli giudicasse a proposito, acciò si potesse poi venire quanto prima all’essecuzione del Legato”. 

Potrebbe essere stato dunque l’ecclesiastico Giuliano de’ Medici il mittente?

Per meglio esaminare la questione, mi soffermo a ricordare che Giuliano de’ Medici “nacque a Firenze nel 1574 da Raffaello di Francesco de’ Medici e da Costanza di Pietro Alamanni. Il padre fu senatore e cavaliere di S. Stefano, balì di Firenze e infine conte di Castellina nel 1628” (Nota 1). Prima di essere nominato arcivescovo di Pisa, Giuliano de’ Medici affiancò il granduca Cosimo II in importanti missioni diplomatiche – nelle quali esercitò il suo versato intelletto a favore del Granducato di Toscana anche dopo la morte di Cosimo – e collaborò con questo granduca nell’impegno a proteggere e ad agevolare lo scienziato Galileo Galilei. Tra le sue azioni in favore dello scienziato è noto che nel 1620 egli lo raccomandò presso il viceré di Napoli (Nota 1). La riconoscenza del Galilei ai de’ Medici è ben manifestata nell’introduzione del suo famoso testo “Sidereus nuncius”, dedicata a Cosimo II:

“Pertanto, avendo io, Auspice l’Altezza Vostra Serenissima, scoperto queste stelle sconosciute a tutti i passati Astronomi, con pieno diritto stabilii di insignirle del nome Augustissimo della sua Prosapia. Che se per primo io le esplorai, chi potrà con ragione riprendermi, se ad esse io imporrò anche il nome, e le chiamerò ASTRI MEDICEI?” (5)

Di conseguenza Galilei nominò “Astri medicei” i quattro satelliti del pianeta Giove da lui scoperti, attualmente noti individualmente con i nomi di Callisto, Europa, Ganimede (il più grande, con diametro > 5000 Km) e Io.

Giuliano ebbe soprattutto un rilevante ruolo di mediazione nell’ambito del Granducato. Conclusa nel 1626 una missione a Mantova, nel 1631 fu inviato a Susa, per risolvere diplomaticamente un conflitto politico tra Granducato e Francia. “La lapide voluta dal fratello e i panegirici seicenteschi riconoscono in questo incarico il suo più grande successo diplomatico per aver convinto Luigi XIII a non entrare in Italia con un esercito”. (Nota 1).

Un personaggio con tali caratteristiche potrebbe essere stato dunque l’autore di questa lettera? In realtà, la lettera non ci fornisce l’immagine di un diplomatico, che partecipa occcasionalmente alle riunioni dei reggenti, ma piuttosto di un incaricato nella gestione di questioni relative all’eredità Della Rovere; un ecclesiastico altolocato, appartenente alla famiglia de’ Medici, che segue gli sviluppi di determinate faccende da Firenze con il piglio deciso di chi sia ben inserito tra i reggenti. Infatti, dalla lettera apprendiamo che il balì Cioli, potente uomo politico del Granducato, gira le lettere ricevute dal Paolozzi al Del Medici autore di questa lettera: “Molto mag:°: sig:re io ho sentito quanto ella ha scritto à mè con le due sue piene lettere de 22., et de 24. inviate al Balì Cioli, si come sento di mano in mano tutto quel, ch’ella scrive à lui, et veggo, che non le mancano de fastidij.”  Diversamente, nel 1631 l’attività di Giuliano si svolse principalmente a Pisa nell’ambito del suo incarico ecclesiastico e nello stesso anno un importante impegno diplomatico lo condusse a Susa.

Fatte queste valutazioni preliminari, non mi rimaneva che considerare la firma, presentata in figura 2: è verosimile che si riferisca a Giuliano de’ Medici? Era necessario un confronto con altre lettere note di questo nobile. Ricerca non facile, ricordando quanto riferisce l’Enciclopedia Treccani: “Giuliano de’ Medici morì a Pisa il 6 genn. 1636, dopo avere dato il suo assenso perché da Firenze raccogliessero e bruciassero tutte le sue lettere”. Ma infine mi è stato possibile rinvenire una lettera attribuita a Giuliano De’Medici nell’archivio Ricci di Firenze e di riceverne gentilmente una copia dall’archivista;  in fig. 11 ne è presentato un particolare. Nella lettera, datata marzo 1632, monsignor Giuliano raccomanda, per la riuscita di una causa beneficiale, Giovanni Ruschi (1605-1649), allora ventisettenne figlio del suo medico Cesare Ruschi (1570 – 1641). Come si vede nel confronto tra i testi di fig. 1 e di fig. 11 varie somiglianze nella calligrafia orienterebbero a considerare che il mittente sia proprio Giuliano de’ Medici: si veda, per esempio, il modo di scrivere il termine “tutto”,  il “6” delle date (fig. 2 e fig. 11), la “G” di “Giovanni” in fig. 11 e la “G” di “Principessa Grande” in fig. 1, ecc. Ma la calligrafia è complessivamente meno ricercata, l’interpunzione è più essenziale e la sintassi è decisamente più lineare nella lettera dell’archivio Ricci. E quando si osservano le firme, ci si rende conto in modo ancor più evidente che siamo di fronte a due distinti autori.

A questo punto mi è venuto in aiuto il suggerimento della dott.ssa Romanelli, che gestisce l’archivio Del Riccio a Firenze, presso il quale mi ero rivolto alla ricerca di una lettera utile per l’identificazione del mittente: quello che per me era un nome terminante in (…)ano, è in realtà una qualifica: “Il Card”. Considerato che nella firma è precisato il cognome “deMedicj” e tenendo conto della datazione “maggio 1631”, possiamo individuare il nome del mittente: il cardinale Carlo de’ Medici (1596 – 1666), figlio di Ferdinando I, che fu granduca di Toscana fino al 1609, e di Cristina di Lorena. Una conferma mi è stata data dal reperimento di una firma del cardinale (fig. 12).

Carlo fu nominato cardinale all’età di appena 19 anni e per l’occasione non si mancò di pubblicare manuali per orientarlo ai comportamenti adatti per il suo incarico. Egli visse a Firenze, sostenne gli interessi della famiglia e fu nominato tutore di Vittoria (della quale era zio), curandosi del patrimonio che ella aveva ereditato (Nota 1), All’epoca del plico in esame egli aveva trentacinque anni.

Dato un nome al mittente, valutati inoltre i titoli del dott. Paolozzi ed esaminati il contenuto di questa lettera e il suo contesto storico, lo scritto ci offre una visione sulle caratteristiche del rapporto diplomatico tra il Granducato di Toscana e lo Stato pontificio in occasione della morte del duca di Urbino. Infatti, si può notare che il cardinale Carlo non è solo un de’ Medici tenuto in considerazione dai reggenti del Granducato, ma è anche un ecclesiastico, perciò particolarmente adeguato a confrontarsi con gli incaricati dello Stato della Chiesa in corso di precisazione dei beni allodiali rovereschi. Paolozzi collabora con i de’ Medici, ma ha avuto anche incarichi diplomatici presso lo Stato pontificio. Si evidenzia quindi una tensione dialettica equilibrata tra Granducato e Stato pontificio nella questione “ex Ducato di Urbino”. Ma non sarà per molto. I reggenti del Granducato avevano pur sempre visto sfumare l’acquisizione del ducato di Urbino, a suo tempo preparata con un legame parentale ai Della Rovere. La successiva pretesa avanzata da Urbano VIII sul ducato di Castro, possedimento della famiglia Farnese, aprirà la strada a un conflitto tra lo Stato pontificio e il Granducato di Toscana: iniziato nel 1641, evolse nel 1643 in una breve alleanza tra il Granducato, Venezia e il ducato di Modena in opposizione armata allo Stato pontificio, al fine di ridimensionarne la volontà espansiva a discapito delle sovranità italiane. La guerra fu breve, risolvendosi in marzo con il trattato di Roma, che stabilì la restituzione del ducato di Castro alla famiglia Farnese (Nota 1).

 

Caratteristiche del plico

Il plico è presenta forma rettangolare con lati 6,9 cm x 10,1 cm (Fig. 4) e deriva da un foglio 26,7 cm x 39,8 cm, piegato in quattro: le prime tre pieghe orizzontali, l’ultima piega verticale. Il plico pesa 7 g. 

Notiamo l’assenza di timbro postale e di francobollo (Fig. 4 e 5). Infatti, i timbri postali compariranno trent’anni più tardi, nel 1661, iniziando a diffondersene l’uso in Inghilterra. Molto più tardivo fu l’utilizzo del francobollo: questo sistema di pagamento per le spedizioni comincerà ad essere utilizzato per la prima volta nel 1840 in Inghilterra e fu adottato nella penisola italiana dieci anni più tardi con la serie di valori emessa in data 1° giugno 1850 dal regno lombardo-veneto.

La carta è in ottimo stato di conservazione; presenta una massa di di 130g/m2, ha struttura vergata e vi si rinviene un’unica immagine filigranata (Fig. 3), consistente in una croce a bracci uguali inscritta in un cerchio con diametro di 2,2 cm. La posizione della filigrana è a un quarto del lato lungo del foglio e a metà del suo lato corto.

Fig. 4

Le pagine della lettera sono state ottenute piegando il foglio in due perpendicolarmente al lato maggiore e la scrittura si sviluppa sulle prime tre pagine, su righe perfettamente lineari ed equidistanziate. L’inchiostro è bruno scuro. I caratteri sono definiti accuratamente e abbelliti con abili tratteggi di pennino (Fig. 1).

Il frontespizio del plico contiene esclusivamente il destinatario, dott. Flavio Paolozzi, preceduto dal titolo “Al molto mag:° sig.re et Dottore” e seguito dalla città di destinazione: “Casteldurante” (Fig. 4). Questo paese del Ducato di Urbino passò sotto il dominio dello Stato Pontificio nel 1631; nell’anno 1636, cinque anni dopo la datazione di questa lettera, fu rinominato “Urbania” in onore del papa Urbano VIII. Attualmente corrisponde al comune italiano di Urbania in provincia di Pesaro e Urbino.

Il nominativo del destinatario è ribadito sull’ultima pagina della lettera all’estremità sinistra del suo margine inferiore. 

Fig. 5

Caratteristica delle lettere in quest’epoca è la nizza (Fig. 4 e 5), una fascetta di carta che avvolge il plico. Questa modalità di chiusura dei plichi era in uso fin dal XV secolo. In questo plico la lunghezza della nizza è di 12,2 cm. Non era infrequente che questa benderella fosse ricavata dallo stesso foglio in cui era scritta la lettera; in questo caso la nizza è stata invece ritagliata da un distinto foglio di carta dello stesso tipo di quello utilizzato per la lettera. La nizza è stata abbellita con tagli curvilinei sui lati lunghi e all’estremità incollata al plico. Per ottenere tagli simmetrici la benderella è stata temporaneamente piegata lungo il suo asse maggiore. All”estremità libera sono state praticate due piegature della carta, per ottenere una forma triangolare regolare con lati rettilinei. Un timbro a secco è impresso in corrispondenza all’area di incollatura della nizza al retro del plico. Immagine e scritta della timbratura non sono chiaramente definibili, ma in luce radente appaiono i tipici sei bisanti dello stemma mediceo. Nell’area di incollatura tra nizza e carta del plico è interposto un rettangolo di colore arancione con lati 3,2 cm x 2,8 cm, consistente verosimilmente in ceralacca. La nizza fu applicata prima di scrivere il mittente, essendovi apposta parte della scritta “Al molto mag:° sig.re et Dottore Flavio Paolozzi”. 

 

Un plico sanificato?

Come si nota in fig. 4 un taglio lungo 1,9 cm è visibile sul fronte del plico al di sotto della nizza; l’estremità del taglio è in posizione corrispondente all’apice della nizza. Il taglio si approfonda nel plico a tutto spessore.

Fig.6

Quale funzione potrebbe aver avuto questo taglio? 

Nell’articolo “Agosto 1835: messaggio da una pandemia” (pubblicato in questo sito, luglio 2022) ho presentato una lettera dell’anno 1835 con molteplici tagli, effettuati da un apposito strumento, definito “rastrello”. Questi tagli avevano lo scopo di consentire, con finalità disinfettante, la diffusione di fumi sulfurei all’interno del plico, in accordo con i protocolli di sanificazione postale in uso nel XIX secolo sulla penisola italiana, per contrastare la diffusione del colera, essendovi in corso una pandemia. 

La lettera qui presentata risale al 1631 e questo ci riporta alla grave epidemia di peste, che  tra il 1629 e il 1632 coinvolse importanti città della penisola italiana quali Venezia, Firenze e Milano; un’epidemia ben nota per la descrizione che ne fece il Manzoni nel romanzo “I promessi sposi” e che a Firenze causò circa 9000 decessi. Si potrebbe perciò pensare che il taglio in questo plico abbia analogo significato dei tagli in uso nel XIX secolo. Nel caso specifico di questo plico possiamo tuttavia notare che la posizione del taglio è sottostante alla nizza ed è tale da consentire di posizionare i risvolti della nizza all’interno del taglio, per stabilizzarla. Il taglio rappresenta quindi l’accesso per l’introduzione di una linguetta della nizza (2), in modo da assicurare la chiusura del plico. 

Ma questo taglio potrebbe aver avuto il duplice significato di metodo di sigillatura e di sanificazione? 

Per quanto ho potuto trovare in tema di disinfezione postale, sono segnalati tagli in plichi del XVII secolo perlomeno nelle lettere dell’Ufficio di Sanità in Padova. Questi tagli avevano una lunghezza di 2 cm, analogamente a quello qui descritto (3). 

Ma erano tagli per il fissaggio della nizza o erano tagli per la sanificazione? Un esame della documentazione protrebbe chiarircelo. E’ invece certo che il taglio visibile in questa lettera è riscontrabile anche in lettere ecclesiastiche del XIX secolo e ha l’indubbia funzione di stabilizzare l’estremità libera della nizza (Fig. 6).

Vi è chi osserva che la stessa nizza è un metodo che consentiva una chiusura del plico atta a consentirne la profumazione interna. In tal caso appare evidente che sarebbe stato illogico effettuare con finalità di sanificazione un singolo taglio posto in una posizione tale da essere coperto dalla nizza. Il taglio fu quindi praticato dallo stesso mittente, per stabilizzare la nizza, introducendovi il suo lembo ripiegato e non per altro motivo. 

Fig. 7

De Zanche (Nota 3), autore del volume “Storia della disinfezione postale in Europa e nell’area mediterranea” ebbe tra le mani il plico “de’ Medici”, da me successivamente acquisito, e lo presentò nel suo volume: a suo parere le macchie e le lievi bruniture evidenti in fig. 4 ci riconducono a una disinfezione con spruzzatura di aceto, sostanza utilizzata all’epoca in qualità di disinfettante. Tale brunitura è assente sull’area del plico coperta dalla nizza, che perciò non fu sollevata nel corso dell’ipotetica disinfezione. Nel volume di De Zanche è presentato un’analogo plico con destinatario Flavio Paolozzi in Casteldurante (Fig. 7). La superficie è spiccatamente brunita, mentre la brunitura è assente nell’area coperta dalla nizza. 

Queste osservazioni ci orientano ad ipotizzare ragionevolmente che il plico esaminato in questo articolo fu soggetto a una procedura di sanificazione per contatto con una sostanza ritenuta disinfettante?  

L’utilizzo dell’aceto nel XVI (“la carta si purga dentro l’aceto e poi al sole e si può pigliar sicura”) è chiaramente documentato a Palermo (5), mentre sappiamo che nella seconda metà del XVII secolo a Firenze le lettere provenienti da aree di epidemia erano poste su una graticola di ferro, che poi veniva fatta passare e ripassare sopra la fiamma (1). Da documenti veneziani e da ordini del Magistrato generale del Serenissimo Duca di Savoia sopra la Sanità sappiamo che nel XVII secolo erano essenzialmente utilizzati profumi. Per comprendere l’identità di questi antichi profumi può venirci in aiuto una ricetta del Magistrato alla sanità di Venezia per il Profumo e lo Spurgo delle lettere, tenendo tuttavia presente che essa risale alla seconda metà del XVIII secolo: poteva trattarsi di balsamo di storace (estratto dall’arbusto Styrax officinalis), di incenso, di bacche di ginepro (2).

“La peste è un male contagioso cagionato da infezzione d’aria, […]  la peste è un vapore velenoso, concreato nell’aria, nimico dello spirito vitale” (10). Questa è l’affermazione del cancelliere dell’Ufficio di Sanità di Firenze, anno 1629. E’ evidente che il razionale della fumigazione poggiava su questa diffusa credenza.

Fig. 8

E’ verosimile che aceto e fumigature con profumi fossero utilizzati nei diversi regni italiani, ma non è sempre chiaramente definibile quale fosse la consuetudine in ciascun luogo e in un determinato tempo.  Quale poteva essere per il caso di nostro interesse il provvedimento sulle lettere in ingresso da aree di epidemia presso Casteldurante nel periodo di iniziale dominio dello Stato Pontificio?  In assenza di una risposta, un esame del plico e del suo contenuto fornisce alcuni elementi, che possono metterne in dubbio una disinfezione con aceto e forse con altri profumi. 

In primo luogo, la parte posteriore del plico non presenta discromie; questa evidenza sembrerebbe escludere l’uso di un disinfettante liquido o di una fumigatura (Fig. 5). Per quale motivo, infatti, il plico non dovrebbe essere stato trattato sul retro? 

Fig. 9

Diverso è il tipico aspetto di una lettera trattata con fumi o con vapori, come si nota nelle figure 8 e 9. In fig. 8 è ben evidente che il plico fu aperto e fu sottoposto a fumigazione, tenendolo sospeso con la pinza, della quale è rimasta l’impronta. Il plico fu spedito il 22 luglio 1834 da Costantinopoli a Trieste e fu disinfettato a Semlin (città libera dell’Austria nel XIX secolo; attuale Zemun, area residenziale di Belgrado), come attestato dal bollo lineare, riportante in lingua tedesca la dicitura: “Affumicato a Semlin”.

 

In fig. 9 è invece presentato un plico spedito dall’India a Edimburgo nel 1832, ovvero nel periodo della seconda pandemia di colera. E’ evidenziabile la discromia della carta dovuta al contatto con una sostanza dispersa nell’aria. Infatti, sulla sua superficie si nota un’area rettangolare leggermente più chiara, che è tipico segno delle pinze utilizzate per sostenere un plico in corso di disinfezione.  La restante superficie è leggermente brunita in modo omogeneo e l’inchiostro è stato significativamente alterato dal contatto con le sostanze disinfettanti. Verosimilmente le sostanze furono disperse in vapore, piuttosto che in un fumo, essendo evidenziabili lungo le pieghe della carta irregolari fasce discromiche (Fig. 10), come se un liquido vi si fosse qui condensato in maggior quantità, prima di evaporare. La compromissione dell’inchiostro sembrerebbe indicare una procedura sanificante particolarmente energica, forse spiegabile con la consapevolezza che l’India era stato il Paese fonte nella prima pandemia di colera.

 

Fig. 10

In secondo luogo, spostando la nostra attenzione al messaggio contenuto nella nostra lettera “de’ Medici”, possiamo constatare che vi si respira un clima di normalità nei traffici e nella mobilità delle persone: vi è un quantitativo di sale caricato su imbarcazione, che sarebbe stato preferibile vendere ai Ministri Camerali non singolarmente, ma associato a un altro quantitativo di sale, non imbarcato, o in alternativa sarebbe stato più vantaggioso condurre il sale imbarcato altrove per acqua, vendendo ai Ministri Camerali il quantitativo di sale non imbarcato; e vi è un accenno a una richiesta inviata a Roma e a Città di Castello, “per poterci mandare un Computista da Siena, acciò V.S. possa tornare al suo carico in buona stagione”. Questa constatazione orienta a pensare che nel maggio 1631 non fosse percepita una situazione di particolare gravità a Firenze, perlomeno da parte del mittente. E poiché il plico è inviato da un personaggio altolocato a un suo collaboratore, è poco probabile che siano stati imposti controlli in corso di spedizione. Anche per quanto concerne il plico “fratello” del plico qui esaminato, presentato in figura 7, non è escludibile che la diversa tonalità tra l’area coperta dalla nizza e la restante superficie siano conseguenza dell’esposizione alla luce solare nel corso di molti anni, piuttosto che di una fumigazione. 

 

Fig. 11

Conclusioni

In conclusione, si evidenzia che anche un modesto documento antico, come la lettera qui presentata, può essere stimolante punto di partenza per inoltrarsi, quanto si voglia, nella storia di un’epoca, fermo restando che questo articolo è anche un invito a un più competente studio del documento presentato da parte di qualche storico, che sia interessato a delineare più precisamente i contorni delle vicende celatevi in ciascun paragrafo.

L’articolo ci fornisce anche l’occasione di apprezzare una certa carenza di sistematizzazione nella storia della disinfezione postale. Infatti, non è disponibile un testo che indichi quali fossero i regolamenti di disinfezione postale Stato per Stato in ogni determinata epoca. 

Accadde a Milano che a metà del XVI secolo si teorizzasse che “le lettere pigliano infetione” (6). Tale credenza si affermò successivamente in altri Stati italiani. Si tratta effettivamente di un aspetto molto marginale della storia postale sul piano pratico, considerando che in epoca moderna non è stata confermata la possibilità di contagio tramite materiale postale contaminato per contatto cutaneo. Ma anche questo aspetto storico non dovrebbe essere dimenticato, integrandosi a buon diritto nella storia delle normative con le quali le società di tutti i tempi hanno tentato di arginare il dilagare delle epidemie. 

 

Fig. 12

Bibliografia

1. Barni E, Lottarini F. Le Chiane chiusine. Confini, economia e territorio lungo il Sentiero della Bonifica. Consiglio regionale della Regione Toscana, edizioni dell’Assemblea, ottobre 2017.  ISBN 978-88-85617-049.

2. Biganti T, Semenza G. L’eredità dei Della Rovere. Inventari dei beni in Casteldurante (1631). Accademia Raffaello, 2005. ISBN 8887573204, 9788887573206. 

3. Ciano C, La sanità marittima nell’epoca medicea. Pisa, 1976. 

4. D’Angelo F. Il fondo Ducato d’Urbino nell’Archivio di Stato di Firenze. Università di Urbino, Urbino University press. In: https://press.uniurb.it/index.php/UrbinoUP/catalog/download/12/14/69?inline=1.

5. De Zanche L. Storia della disinfezione postale in Europa e nell’area mediterranea. Elzeviro Ed., Padova, 1997. 

6. Ferrari C. L’Ufficio della Sanità di Padova nella prima metà del secolo XVII. Venezia, 1909.

7. Galilei G. Sidereus nuncius. Storia d’Italia Einaudi. Edizione di riferimento: Sidereus nuncius, a cura di Andrea Battistini, Marsilio ed., Venezia 1993

8. Ingrassia GF. Informazione del pestifero e contagioso morbo il quale affligge et havve afflitto questa città di Palermo nell’anno 1575 e 1576. Palermo, 1576. 

9. Latronico N. La Medicina e l’Igiene nei libri e nei documenti del Magistrato di sanità dello Stato di Milano. Memorie dell’Accademia di studi dell’Arte Sanitaria, serie II, IV, 1938 e VI, 1940. Citato da (2).

10. Giubetti F. Il cancelliero di sanità cioè Notizie di provisioni e cose concernenti la conservazione della sanità contro il contagio della peste, appresso Zanobi Pignoni, 1629, p. 3.

11. Archivio di Stato di Firenze. Ducato di Urbino, classe II. “Scritture attinenti ad affari economici”. Inventario analitico, sec XIV – XVIII. In https://archiviodistatofirenze.cultura.gov.it/asfi/fileadmin/risorse/allegati_inventari_on_line/n43_ClasseSeconda.pdf

 

Nota 1 – Per le biografie relative ai nobili citati e per le notizie storiche è stata consultata l’enciclopedia Treccani online. 

Nota 2 – Lo stesso Giovanni divenne professore in Medicina.

Nota 3 – Luciano De Zanche (1940 – 2005), svolse attività come neurologo presso l’ospedale di Monselice e fu appassionato studioso di storia postale. Tra i suoi libri: “I corrispondenti postali – Italia e area mediterranea”,  “Tra Costantinopoli e Venezia”, “Storia della disinfezione postale in Europa e nell’area del Mediterraneo”.