La mia esperienza sull’echinococcosi epatica si è sviluppata a Modena negli anni ’90, nel periodo del mio corso di specializzazione in Chirurgia generale, quando nell’U.O. chirurgica del Policlinico giungevano pazienti provenienti dalla Sardegna, area di endemia per l’echimococcosi. L’asportazione delle voluminose cisti idatidee con la tecnica della “pericistectomia” era riservata al prof. Casòlo, che in Sardegna aveva trascorso parte della sua vita.
Il fatto che i pazienti provenissero da questa regione non sorprende, considerando la cospicua presenza di ovini, che sono i tipici animali inseriti con il cane nel ciclo di trasmissione del cestode Echinococcus granulosus. La Sardegna è l’unica regione italiana in cui l’echinococcosi è ancor oggi endemica nelle sue aree rurali: nel periodo 2001-2010 sono stati registrati 1502 ricoveri, comportanti complessivamente una spesa sanitaria di 7.000.000 di euro (dati consultabili nel sito della regione Sardegna). Il tasso annuo medio di ricoveri è stato di 6,5 pazienti/100.000 abitanti con un picco di 12,2 pazienti/100.000 abitanti nella provincia di Nuoro.
In Veneto è molto raro il riscontro di un’echinococcosi. Anche in questa regione la specie riscontrata è l’Echinococcus granulosus, mentre fortunatamente non sono al momento segnalati casi del più temibile E. multilocularis, al momento rintracciabile in alcune volpi (Vulpes vulpes) nell’area dell’Alto Adige (3).
Il riscontro di E. granulosus nel Veneto riguarda tipicamente persone che hanno contratto l’infestazione in Paesi quali Turchia, Bulgaria, Albania, Macedonia del Nord, dove hanno vissuto per anni in ambienti rurali. In vent’anni di attività in un ospedale del Veneto ho avuto finora occasione di osservare cinque casi di cisti idatidea epatica, delle quali, utilizzando la vecchia classificazione ecografica di Gharbi e al (5), tre erano del tipo IV-V, quindi inattive. Il più recente caso riguarda un uomo che in gioventù aveva abitato presso il confine tra Macedonia del Nord e Albania. La famiglia possedeva un cane e alcune pecore: una tipica situazione in cui può trasmettersi in età infantile l’Echinococcus granulosus. Infatti, le pecore alloggiano nel fegato o in altri parenchimi la cisti idatidea, contenente i protoscolici potenzialmente infestanti, e il cane diventa l’ospite definitivo del parassita dopo essere stato alimentato con le interiora delle pecore. I protoscolici raggiungono l’intestino tenue del cane e, ancorandosi alla mucosa con uncini, evolvono in cestodi adulti, che producono uova. Le uova sono sparse nel terreno tramite le feci, dove possono restare vitali per molte settimane, contaminando le pecore e occasionalmente l’uomo. L’infestazione umana deriva da un’alimentazione con verdure contaminate, se non sottoposte ad adeguato lavaggio, o dal passaggio delle uova (circa 30 microm il loro diametro) dalle dita alle labbra, dopo aver toccato il pelo di un cane o terriccio contaminati (4). I bambini possono contaminarsi anche toccando direttamente con le labbra il pelo del cane.
In questo scritto non è mia intenzione presentare una review o uno studio specifico sull’echinococcosi, ma di proporre piuttosto quattro particolari domande, che non trovano facile risposta, ma che dovrebbero essere comunque utili per ricercare un’opportunità di migliorare la gestione terapeutica di un’echinococcosi con disseminazione peritoneale.
Quattro domande su un caso di echinococcosi
Dato il caso di un paziente con rottura traumatica completa di una cisti idatidea epatica nel cavo peritoneale, trattata urgentemente con toilette peritoneale:
– potrebbe essere utile dimettere il paziente con un drenaggio addominale Penrose in sede, in modo da monitorare l’azione dell’albendazolo con la periodica ricerca di parassiti vitali in prelievi di secreto peritoneale, per valutare l’efficacia del trattamento?
La domanda si pone, considerando che la ricerca sierologica degli anticorpi non è utile: la sieropositività può persistere per anni nonostante il trattamento (7).
In fig. 1 si può notare un uncino di E. granulosus in uno striscio di liquido peritoneale alcuni giorni dopo l’inizio del trattamento con albendazolo in un caso di rottura intraperitoneale di cisti idatidea. Esaminandolo, non ci è possibile stabilire la vitalità del parassita. Come procedere, dunque?
Per questa non facile risposta mi sono affidato al parere raccolto presso un Centro specializzato. La vitalità dei parassiti deve essere stabilita su uno striscio a fresco e l’osservazione è facilitata dopo aver effettuato una delicata centrifugazione. Un momento critico per ottenere un’affidabile risposta sulla vitalità del parassita è la “delicatezza” della centrifugazione.
La seconda domanda è la seguente:
Per il caso preso in considerazione nella domanda precedente, può essere identificata qualche altra tecnica di analisi sul secreto peritoneale, per valutare l’efficacia del trattamento con albendazolo?
In primo luogo, la PCR, ovvero “tecnica della reazione a catena della polimerasi” (dettagli tecnici in Appendice). Questa metodica non è disponibile in tutti gli ospedali, ma è comunque possibile trovare in Italia Centri che la effettuano, per esempio l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sardegna. Questo esame consente di identificare con elevata sensibilità e specificità la presenza del parassita in un liquido biologico (8,9). Si noti che questa affermazione implica che la PCR è altamente sensibile quando si esamina il secreto idatideo – e verosimilmente un secreto peritoneale contaminato da protoscolici -, ma non quando si esamina il siero o le urine di un paziente con cisti idatidea integra (9).
In secondo luogo l’immunoblotting per la rilevazione di antigeni somatici solubili dei protoscolici (PSSAs) nel siero. Questa metodica ha fornito preliminari risultati incoraggianti nel follow up di pazienti sottoposti ad asportazioni di cisti idatidea, qualora si esamini l’andamento temporale della doppia banda 27- e 28- kDa nei sei mesi successivi all’intervento (10).
In conclusione, dovrebbe essere possibile valutare l’efficacia del trattamento con albendazolo dopo alcuni mesi, qualora vi fosse la possibilità di ottenere un campione di secreto peritoneale. E questo in primis con la PCR, per la quale ho l’impressione che vi siano maggiori evidenze di un’utilità clinica. Potrebbe essere interessante oggetto di studio la questione sulla differenza di sensibilità tra PCR sul liquido peritoneale e immunoblotting rispettivamente sul siero e sul liquido peritoneale. Secondo logica sembrerebbe che un’analisi sul liquido peritoneale sia più affidabile che un’analisi sul siero per la ricerca di attività parassitaria dopo una disseminazione intraperitoneale di protoscolici.
Terza domanda.
Nell’ipotesi che un drenaggio addominale tipo Penrose fosse mantenuto per qualche tempo dopo la dimissione dall’ospedale, il secreto peritoneale potrebbe essere infestante, se il paziente autogestisse il drenaggio a domicilio, svuotando periodicamente il contenuto del sacchetto di raccolta?
Una ricerca in letteratura scientifica è di dubbia utilità nel rispondere a una domanda tanto particolare. Perlomeno questa ricerca non mi è stata utile. Penso che la risposta possa essere cautamente affermativa. Infatti, qualora nel secreto vi fossero capsule proligene (250-500 microm il loro diametro) e protoscolici vitali, il paziente potrebbe contaminarsi le labbra con le dita inumidite dal secreto del drenaggio, qualora non seguisse norme igieniche, quali l’uso di guanti o il lavaggio delle mani dopo la procedura. Di conseguenza, i parassiti potrebbero ancorarsi al suo intestino, iniziando a produrre uova dopo la maturazione in tenia. Una situazione analoga a quella del cane che si contamina, venendo a contatto con frammenti di cisti nella modalità che ho sopra ricordato. In un contesto di scarsa igiene le uova potrebbero essere ingerite dallo stesso paziente (autotrasmissione oro-fecale), dando teoricamente origine a un’infestazione parenchimale.
Con questa ipotetica prospettiva è improponibile mantenere un drenaggio Penrose per una gestione domiciliare da parte del paziente.
Come alternativa, non sembra una migliore soluzione il posizionamento di un catetere peritoneale, dotato di rubinetto, al termine dell’intervento chirurgico. Infatti, se da un lato il catetere offrirebbe il vantaggio di una chiusura “sotto garza”, dall’altro lato ben sappiamo che i pigtail sono presidi adeguati per drenare raccolte addominali, mentre sono poco adatti per drenare il normale secreto peritoneale. L’unica soluzione potrebbe essere quindi l’inserimento intra-operatorio di un sottile drenaggio tipo Penrose, pescante nel cavo di Douglas, con un programma di gestione ambulatoriale per il periodico svuotamento del secreto drenato.
Infine, presento la quarta e ultima questione:
– nel caso sopra citato quale deve essere la durata di un trattamento con albendazolo?
E’ certamente prudente prolungare il trattamento dopo la dimissione ospedaliera, prescrivendo 1 compressa di albendazolo da 400 mg due volte al giorno per cicli di 28 giorni, intervallati da sospensione del trattamento per 14 giorni. Il problema è definire quale sia l’intervallo di tempo ottimale. Se il farmaco fosse somministrato in alternativa a un intervento resettivo, la durata dovrebbe essere di almeno sei mesi (6). Per il caso qui in esame un orientamento può derivare dall’atteggiamento molto prudente, che emerge in articoli sul tema del trattamento dell’infestazione da E. multilocularis. Com’è noto, l’infestazione da Echinococcus multilocularis è particolarmente insidiosa, non formandosi nei parenchimi cisti idatidee ben delimitate da una capsula fibrosa, ma lacune necrotiche nelle quali il parassita è vitale alla loro periferia, sulla superficie del parenchima. Consultando il sito “Centers for Disease Control and Prevention” si trova il consiglio di mantenere la terapia per almeno due anni indipendentemente dall’effettuazione di un’asportazione chirurgica (2), ma vi sono casi di infestazione da E. multilocularis, in cui è stato deciso di protrarre la terapia senza un definito limite temporale in assenza di manifestazioni di tossicità (epatotossicità, neutropenia (4)); sono documentati trattamenti protratti per almeno vent’anni (1). Analogo atteggiamento potrebbe essere quindi adottato nel caso di una disseminazione intraperitoneale da E. granulosus. E questo indipendentemente dalle valutazioni sierologiche; infatti, la sieropositività si mantiene per anni indipendentemente dall’efficacia del trattamento (7).
Conclusioni
Le risposte a queste quattro domande suggeriscono di valutare l’opportunità di mantenere in sede un drenaggio addominale, pescante nel cavo di Douglas, per alcuni mesi dopo un intervento chirurgico effettuato per una disseminazione peritoneale di E. granulosus conseguente alla rottura di una cisti idatidea. La ricerca del parassita nel secreto peritoneale con PCR potrebbe consentire di monitorare l’efficacia terapeutica dell’albendazolo.
Bibliografia
1. Brunetti E, Kern P, Vuitton DA. Expert consensus for the diagnosis and treatment of cystic and alveolar echinococcosis in humans. Acta Trop 2010; 114: 1-16.
2. Centers for Disease Control and Prevention. In:
https://www.cdc.gov/parasites/echinococcosis/health_professionals/index.html#tx
3. Citterio CV, Obber F, Trevisiol K e al. Echinococcus multilocularis and other cestodes in red foxes (Vulpes vulpes) of northeast Italy, 2021-2018. Parasites & Vectors 2021; 14: 29.
4. de Carneri I. Parassitologia generale e umana. Casa Editrice Ambrosiana, 1983.
5. Gharbi HA, Hassine W, Brauner MW, Dupuch K. Ultrasound examination of the hydatic liver.
Radiology 1981;139: 459-463.
6. Kern P. Echinococcus granulosus infection: clinical presentation, medical treatment and outcome. Langenbecks Arch Surg 2003; 388: 413-20.
7. Mihmanli M, Idiz UO, Kaya C e al. Current status of diagnosis and treatment of hepatic echinococcosis. World J Hepatol 2016; 8(28): 1169-81.
8. Georges S, Villard O, Filisetti D e al. Usefulness of PCR analysis for diagnosis of alveolar echinococcosis with unusual localization: two case studies. J Clin Microbiol 2004; 42(12): 5954-6.
9. Chaya D, Parija SC. Performance of polymerase chain reaction for the diagnosis of cystic echinococcosis using serum, urine, and cyst fluid samples. Trop Parasitol 2014; 4(1): 43-6.
10. Ben Nouir N, Nunez S, Gianinazzi C e al. Assessment of Echinococcus granulosus somatic protoscolex antigens for serological follow-up of young patients surgically treated for cystic echinococcosis. J Clin Microbiol 2008; 46(5): 1631-40.
Appendice
PCR. Per una comprensione sulle caratteristiche di questa sofisticata tecnica riporto una chiara e sintetica spiegazione, rintracciabile in Internet, a cura del Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità:
“La reazione a catena della polimerasi (PCR) è una tecnica di biologia molecolare che consente l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici specifici dei quali si conoscono la sequenza nucleotidica iniziale e terminale (coppia di oligonucleotidi). Se una specie possiede una porzione di DNA caratteristica, per composizione e/o dimensione, che la distingua da altre specie filogeneticamente affini, è possibile scegliere una coppia di oligonucleotidi che permetta la sua amplificazione e quindi identifichi la sua presenza in campioni incogniti di materiale biologico. L’amplificazione (PCR) è caratterizzata da alta sensibilità e specificità. Alla tecnica di PCR è possibile abbinare la tecnica di “Restriction Fragment Lenght Polymorphism” (RFLP), ovvero l’analisi dei frammenti di restrizione. La tecnica permette di distinguere frammenti di DNA di diverse dimensioni, ottenuti mediante digestione enzimatica con una o più endonucleasi, enzimi in grado di tagliare il DNA a livello di brevi e specifiche sequenze nucleotidiche. Abbinando le due tecniche (PCR e RFLP) è possibile, con una singola coppia di oligonucleotidi, amplificare la stessa porzione di DNA da specie diverse e distinguerle successivamente in base alle dimensioni dei frammenti di DNA ottenuti dopo digestione enzimatica dell’amplificato.
Una variante della “PCR standard” è la Multiplex PCR nella quale vengono utilizzate più coppie di oligonucleotidi. In questo caso è possibile con un singolo test amplificare contemporaneamente più sequenze per identificare più specie o genotipi.
Lo studio di alcuni geni mitocondriali e nucleari degli individui appartenenti al complesso E. granulosus s. l. ha permesso di distinguere 8 genotipi identificati come E. granulosus sensu stricto (genotipi G1, G3), E. equinus (genotipo G4), E. ortleppi (genotipo G5) ed E. canadensis (genotipi G6/G7, G8 e G10).
È possibile discriminare i genotipi G1, G3 (più comuni) dagli altri genotipi (G4, G5, G6/G7, G8, G10) con l’amplificazione di un frammento di DNA (Citocromo ossidasi I; COX1) di circa 444 paia di basi (bp), e il riconoscimento di un sito di taglio nello stesso frammento da parte dell’enzima di restrizione AluI. I genotipi G1, G3 sono identificati attraverso due bande di circa 209 e 235 bp, mentre per gli altri genotipi non si ha evidenza del sito di restrizione. Per identificare i genotipi G4, G5, G6/G7, G8, G10, si procede con una Multiplex PCR che, grazie all’utilizzo di 5 coppie di oligonucleotidi, è in grado di discriminare i diversi genotipi sulla base della grandezza degli amplificati”.
Vedi in :
https://www.iss.it/documents/20126/5770165/MI-15+%28rev+0%29+Identificazione+Echinococcus+granulosus+sl+mediante+PCR_RFLP+e+Multiplex+PCR.pdf/6bb762af-811e-1b1f-7c8a-ed496e15add8?t=1623844868364