di Enrico Ganz

 

Un giorno una persona mi chiese cosa pensassi sul rapporto tra matematica e fisica, in particolare se la matematica debba “andare a braccetto con la fisica”. Iniziai a scrivere la risposta, riportando una riflessione di R. Penrose sui  numeri naturali (0, 1, 2, 3, …), cioè quei numeri che sono derivati dalla nostra esigenza di contare oggetti e quindi concepiti nel rapportarci con il mondo fisico. Penrose, anziano matematico e fisico, fa notare che, se l’Universo fosse formato da sostanza amorfa, dove non fosse possibile contare alcun oggetto (quindi un Universo diverso dal nostro), un essere pensante di questo Universo, unico suo abitante, potrebbe comunque concepire questi numeri, utilizzando l’idea astratta di “insieme” { }, come evidenziato da von Neumann. Il nostro alieno potrebbe dire:

“Consideriamo un insieme vuoto ø, cioè ø = { }. Come si vede, non vi è nulla all’interno della parentesi. Associo ø al numero 0. Posso ora definire un insieme il cui unico elemento è ø, cioè {ø}. Questo insieme ha un elemento, perciò posso associarlo al numero 1. Ora vi sono i dati per definire l’insieme che contiene i due insiemi ø e {ø}, che è { ø, {ø} }; esso è associabile al numero 2. E così via.”

In questo modo, partendo dal concetto di insieme, i numeri naturali potrebbero essere definiti indipendentemente dalla reale esistenza di oggetti nel mondo fisico.

Ma avrebbe senso definire idealmente i numeri naturali in un Universo informe dove non sapremmo come utilizzarli? Si potrebbe obbiettare che una matematica non agganciata alla fisica probabilmente non avrebbe molta utilità al di fuori di un puro esercizio mentale. Tuttavia, questo tipo di matematica potrebbe perlomeno suggerire al nostro alieno l’ipotesi che esista un altro Universo, composto da elementi realmente definibili con i numeri naturali, qual è il nostro. La sua ipotesi non sarebbe poi stravagante: oggi nessun fisico se la sentirebbe di escludere con certezza che gli Universi siano molteplici, ovvero che esistano molti “Poliversi”. Inoltre, sappiamo che egli avrebbe ragione a ipotizzare il nostro Universo.

Ritorniamo ora al nostro Universo. Si può constatare che molti studi matematici sono stati condotti indipendentemente dalle ricerche nel campo della fisica e della tecnica. Qualcuno potrebbe affermare che queste costruzioni matematiche non siano utili, essendo pure esercitazioni mentali; e che è invece opportuno che la matematica sia indirizzata alle applicazione del mondo reale: per quanto riguarda la fisica, si parte dai dati sperimentali, ci si forma un’idea della legge fisica correlatavi, poi si esprime questa idea in forma matematica.

Tuttavia, se si ritenesse che la matematica debba servire per descrivere l’esistente, non sarebbe questo l’unico percorso utile. La matematica e la fisica possono procedere per vie indipendenti fino al momento in cui un certo sviluppo matematico del tutto astratto fornisce un importante indirizzo nella ricerca in fisica. Per esempio, la funzione beta di Eulero, un concetto matematico astratto risalente al 1700, fu “agganciata” nel 1968 da Gabriele Veneziano ai risultati relativi a esperimenti sulle interazioni forti tra particelle subatomiche. Ne nacque la teoria delle stringhe, che fornì la piattaforma per definire la teoria delle superstringhe. Finora nessuno è stato in grado di fornire evidenze sperimentali di questa teoria, che potrebbe infine restare la descrizione matematica di un mondo, che potrebbe non corrispondere a quello in cui viviamo. E’ evidente che solo una conferma sperimentale può rendere reale e talvolta utile per la nostra vita quanto è teorizzato, ma le teorie possono essere comunque importanti per definire successive linee di ricerca sperimentale. Per esempio, il bosone di Higgs è stato dapprima teorizzato, poi scoperto con un complesso piano sperimentale, che ha richiesto la costruzione di un potente acceleratore al CERN di Ginevra.

In conclusione, sintetizzata la complessità della questione nei grandi limiti delle mie conoscenze, alla mia interlocutrice risposi che non esisteva una netta risposta secondo verità alla domanda che mi poneva.

Il mio parere è che nell’animo di ogni ricercatore dovrebbe esserci il sogno di poter scoprire qualcosa di utile per l’umanità. Non è detto che questo “qualcosa” sia un beneficio economico o di salute; può trattarsi di conoscenza:

“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza” (A. Dante).

Linee di ricerca matematiche puramente teoriche possono contribuirvi, fornendo inaspettate prospettive allo studio della fisica e delle tecnologie.

Tuttavia, sembrano maturi i tempi per prendere coscienza che la realtà si estende ampiamente oltre il limite estremo delle nostre potenzialità conoscitive. Vi è un limite oltre il quale matematica e fisica fanno naufragio. Il pensiero filosofico potrebbe tentare di risolvere la questione, suggerendoci che è reale solo quanto è descrivibile scientificamente, mentre il resto non esiste. Quindi, gli strumenti scientifici ci consentirebbero di conoscere tutto il Reale. Ciò che non è Reale è il Nulla; e il Nulla non ha alcun interesse per l’uomo. Eppure è evidente che vi è “qualcosa” oltre il bordo del nostro Universo; un qualcosa, che è un’entità fisica, senza la quale il nostro Universo non avrebbe avuto origine. I fisici ci dicono che il nostro Universo è in espansione e che esso ha una forma. Nel 1917 Einstein ipotizzò che la forma dell’Universo fosse una tre-sfera e questa ipotesi gode ancora di buon credito. Non è agevole raffigurarsi una tre-sfera. La nostra mente può più facilmente immaginare una semplice sfera come forma composta da due emisfere, ciascuna traducibile in un disco incollato all’altro sui suoi bordi. Una tre-sfera è una forma data da due sfere unite sul bordo, “per cui ciascuna delle due palle “circonda” ed è circondata dall’altra palla (C. Rovelli). Comunque sia fatta, una tre-sfera è un’entità finita oltre la quale le leggi della fisica non sono verosimilmente quelle che noi conosciamo. Noi siamo composti della “pasta” del nostro Universo e mai potremmo uscire all’esterno del suo bordo, per conoscere cosa vi sia al di là. Le colonne d’Ercole si varcano, il bordo dell’Universo è sostanzialmente invalicabile. Tradizionalmente la metafisica è stata riferita all’ambito divino. In realtà, essa è ancor prima la “casa” del nostro Universo. Ed è più probabile ottenere qualche informazione su Dio tramite qualche suo affidabile messaggero, che non averne una sola sulla vera metafisica, che è la realtà fisica oltre il bordo del nostro Universo.

Tuttavia, non è necessario pensare all’ “Aldilà” dell’Universo, per prendere atto che esiste una realtà inconoscibile anche attorno a noi. Infatti, restando nel nostro Universo, tra i fenomeni più straordinari, misteriosi, inspiegati e forse inspiegabili vi è l’entanglement, sul quale ho desiderato documentarmi, avvalendomi di testi divulgativi. In effetti, gli strumenti matematici quali limiti, derivate, studi di funzione, integrali, equazioni differenziali, applicati ai numeri reali, sembrano “giocattoli” al confronto con la superalgebra di Lie, con gli spazi di Hilbert e con quanto può essere utilizzato in fisica delle particelle. Talvolta, apro un libro di fisica, ammiro oggetti tipo le forme diagrammatiche dei commutatori quantistici dei momenti angolari relativistici e mi chiedo se mai potrò un giorno acquisirne una qualche comprensione con il mio intelletto. Nel frattempo gli autori citati in bibliografia mi hanno consentito comunque di avere una spiegazione dell’entanglement senza l’utilizzo di questi sofisticati strumenti matematici. Ho poi avvertito la necessità di sintetizzarla in uno scritto, che propongo nel seguito, per concludere il discorso sui limiti delle nostre possibilità di approfondire la conoscenza del mondo fisico.

Entanglement: definizione

Una “correlazione non locale” o “entanglement” è una correlazione istantanea tra eventi subatomici, evidenziabile nei risultati di misurazioni, in punti dello spazio anche molto distanti. In altri termini, una particella subatomica può acquisire o presentare determinati comportamenti al momento della sua misurazione con l’effetto che una seconda particella manifesterà un analogo comportamento nello stesso istante in un punto dello spazio anche molto distante, senza interagire tramite forze con la particella gemella.

Prima di descrivere un interessante esperimento sull’entanglement, è opportuno perlomeno introdurre il concetto di “funzione d’onda” e definire il “principio di Heisenberg”.

Un’onda di elettroni

Se si invia un fascio di luce laser contro una lamina opaca, sulla quale sono presenti due fenditure parallele, si ottiene una figura di interferenza su uno schermo posto oltre la lamina. La figura di interferenza è un’alternanza di bande chiare e scure, che derivano dal combinarsi di picchi e ventri delle onde. L’incontro di un picco con un ventre produce una banda scura, un picco con un picco una banda della massima luminosità; l’incontro di un ventre con un ventre si traduce pure in una banda luminosa. La figura di interferenza attesta la natura ondulatoria della luce.

La variante dell’esperimento consiste nell’inviare in successione singoli elettroni. La figura di interferenza si precisa nel corso di alcune ore: si osservano punteggiature degli elettroni, che si concentrano in bande alternate a bande vuote. Le bande punteggiate non sono allineate con le fenditure. Si tratta quindi di una figura di interferenza, caratteristica delle onde, che ha la peculiarità misteriosa di essere determinata da una particolare distribuzione ondulatoria degli elettroni nel tempo.

L’unico modo per spiegarla, considerando che gli elettroni sono corpuscoli, è che l’onda elettronica attraversi entrambe le fenditure e che l’elettrone viaggi su un’infinità di traiettorie possibili. Un’evenienza, che sarebbe “magia” nel caso di oggetti macroscopici e che riguarda solo il mondo subatomico. La natura ondulatoria/corpuscolare è caratteristica di tutte le particelle subatomiche. Anche i fotoni possono essere descritti come onde o come pacchetti di luce. Purtroppo, le più profonde ragioni di questo comportamento restano inspiegate o, forse, definitivamente inspiegabili.

La funzione d’onda

Un elettrone o un fotone non sono distribuiti nello spazio, poiché la loro massa e la loro energia sono concentrate in una regione puntiforme; l’elettrone e il fotone sono sempre corpuscoli, perlomeno quando sono identificati con gli strumenti di misurazione, che sono l’unico nostra possibilità di rivelarli. In realtà, le particelle subatomiche hanno una doppia natura corpuscolare-ondulatoria, ma la misurazione ci fornisce una particella, non un’onda. Perciò, noi non siamo in grado di descrivere matematicamente un’onda di energia, come si potrebbe fare per le onde dell’acqua. Ci è solo possibile definire la funzione d’onda, uno strumento matematico utile per calcolare la probabilità che un elettrone colpisca lo schermo in un luogo definito. La maggiore probabilità è descritta dalla maggiore ampiezza dell’onda. A questo punto, chiedersi se questa funzione matematica esprima l’essenza della natura ondulatoria di una particella diventa una questione filosofica senza possibilità di una risposta certa.

E’ invece certo che un elettrone può essere matematicamente descritto solo con un’onda di probabilità, la cui dimensione in un punto spaziale è proporzionale alla probabilità che l’elettrone sia localizzato in quel punto dello spazio. Riferendoci all’esperimento sopra descritto, la funzione d’onda ci consente di calcolare la probabilità che un elettrone colpisca lo schermo in un luogo definito. La maggiore probabilità è descritta dalla maggiore ampiezza dell’onda. Nel momento in cui la particella è rivelata dallo strumento si verifica il “collasso” della funzione d’onda.

Il principio di Heisenberg

La funzione d’onda è un numero associato a ogni punto dello spazio, che ci indica quanto probabile sia che una particella vi si trovi. Purtroppo essa non ci consente di definire con esattezza posizione e velocità di una particella. Il principio di indeterminazione di Heisenberg stabilisce che se misuriamo accuratamente determinate proprietà fisiche di una particella elementare (fotone, elettrone, protone, ecc.) perdiamo la possibilità di misurarne altre complementari. Per esempio, se riesco a misurarne la velocità, non riesco a misurarne contemporaneamente la posizione; se riesco a misurare il valore di energia di un campo, non riesco a misurare il tasso di variazione del valore di energia di quel campo. Se una funzione d’onda presenta un forte picco in un certo punto dello spazio, l’indeterminazione sulla posizione della particella è minima, ma per il principio di indeterminazione la distribuzione di probabilità per la velocità della particella apparirà ampia. Se invece la funzione d’onda appare a “treno d’onde” vi è molta indeterminazione nella posizione e poca indeterminazione nella velocità. Cioè possiamo precisarne piuttosto bene la velocità, ma non la posizione. L’indeterminazione è una conseguenza della natura ondulatoria. Calcolare accuratamente la velocità di una particella si risolve in realtà nel calcolo della velocità dell’onda in cui la particella si disperde ampiamente in termini di probabilità.

Un sorprendente esperimento: l’entanglement è reale (ma sembra magia)

Le premesse a questo esperimento si collocano negli trenta del secolo scorso. Einstein considerava poco ragionevole che le particelle non avessero precise proprietà (cosidette “variabili nascoste”) fino al momento della loro misurazione, come teorizzato dalla meccanica quantistica. Infatti, secondo la teoria della meccanica quantistica la manifestazione ondulatoria di una particella si può descrivere nella sovrapposizione del trovarsi a destra con probabilità 0,5 e del trovarsi a sinistra con probabilità 0,5, quando ne misuro la posizione (A. Bassi):

Ψ(x) = 1/ √2 (Ψsinistra (x) + Ψdestra (x) ).

Quindi, questa teoria non ammette che la particella abbia una posizione definita prima di effettuare la misura; questa possibilità non è ammessa dalla funzione d’onda. Se la particella avesse una posizione definita anche prima della sua misurazione spaziale, la teoria quantistica sarebbe incompleta, non avendo la funzione d’onda tutta l’informazione relativa alla particella, cioè non informandoci sulla sua precisa posizione.

Einstein non riteneva ragionevole neppure l’esistenza di una “non località”, altro cavallo di battaglia della meccanica quantistica. Per “non località” si intende che può esistere un rapporto causa-effetto tra un agente causale e un oggetto su cui la causa agisce, indipendentemente da una trasmissione di mediatori energetici (per es fotoni) o materiali tra l’uno e l’altro.

Per questo motivo, nel 1935 Einstein, Podolski e Rosen proposero la seguente sfida:

“Si potrebbe dimostrare che una particella ha una posizione e una velocità definita, contrariamente a quanto si afferma in meccanica quantistica?” “E vi è un modo per evitare gli effetti del principio di indeterminazione, secondo il quale la misurazione della velocità di una particella compromette la misurazione della sua posizione?”

Pensando che la risposta fosse affermativa, i tre fisici proposero questa idea: “Se disintegro una particella in due particelle di massa uguale, che – come è noto – si allontanano una dall’altra in direzioni opposte, e misuro la posizione di una delle due particelle definisco indirettamente la posizione della particella gemella, sulla quale non interferisco tramite lo strumento di osservazione. Si dimostrerà che questa seconda particella ha una posizione ben precisa in ogni istante senza che tale posizione debba dipendere dall’interazione con lo strumento. La misura non fa che rilevare proprietà pre-esistenti. Poiché queste proprietà non sono contenute nella funzione d’onda della meccanica quantistica, significa che la meccanica quantistica è una teoria incompleta.

Dopo molte discussioni, nel 1964 John Bell ipotizzò un esperimento, che trae origine dalla precedente ipotesi di Einstein. Esso avrebbe dimostrato la non località, come affermato dalla meccanica quantistica, solo qualora i risultati fossero stati delle diseguaglianze statistiche. Dopo i primi esperimenti degli anni ’70 del secolo scorso, nel decennio successivo nuove possibilità tecnologiche consentirono al fisico Alain Aspect di verificare sperimentalmente le diseguaglianze statistiche di Bell.

Prima di descrivere l’esperimento, è importante sapere che le particelle elementari sono corpuscoli dotati di una particolare proprietà: lo spin. Orientativamente, ma non correttamente, lo spin è definibile come una rotazione del corpuscolo su un asse. Questa descrizione non è vera in senso stretto, poiché in tal caso la velocità di rotazione del corpuscolo sul suo asse sarebbe superiore a quella della luce, che è la velocità massima possibile nel nostro Universo. Correttamente definito, lo spin è il momento angolare, inteso come momento della quantità di moto, attorno al centro di massa della particella. Tuttavia, la precedente semplificazione è accettabile, poiché nulla toglie alla correttezza delle successive osservazioni utili a definire il fenomeno dell’entanglement. L’asse di rotazione può mutare direzione. La rotazione è oraria o antioraria. La velocità di rotazione è costante. Se misuriamo lo spin di un elettrone su un asse scelto a caso non misuriamo mai una quantità frazionaria di spin: sembra che la nostra misurazione obblighi l’elettrone a impegnare tutto il suo spin in senso orario o anti-orario sull’asse da noi scelto. Come ruotasse prima della misurazione rispetto a qualsiasi altro asse non possiamo saperlo. O forse prima di questa misurazione la particella era in un limbo quantistico e realmente non aveva una rotazione rispetto a un qualche asse?

Per rispondere al dubbio, poniamo in un contenitore atomi di calcio eccitati. Tornando allo stato normale ogni atomo emette due fotoni che si allontanano in direzioni opposte. Equidistanti dal contenitore vi sono due rilevatori (polarizzatori), che consentono la scelta dell’asse sul quale misurare lo spin. Il rilevatore può consentire la selezione di tre assi. Il nostro rilevatore può misurare lo spin su un asse di una particella, ma per il principio di Heisemberg si perde necessariamente la possibilità di misurare lo spin sugli altri assi della stessa particella.

Eseguiamo l’esperimento settando i due rilevatori in modo che per ciascuno l’asse sia scelto in modo casuale e indipendente e ripetendo l’esperimento per ottenere un numero sufficiente di dati che sia statisticamente significativo.

In questo esperimento si potrebbero prevedere le seguenti possibilità di risultato:

– possibilità in accordo con la meccanica quantistica.

I fotoni acquisiscono la caratteristica di ruotare in senso orario o antiorario su un determinato asse selezionato sui rilevatori solo al momento dell’osservazione, quando colpiscono i rilevatori. Prima della misurazione le particelle si trovano dunque in un limbo quantistico e non avrebbe senso attribuire loro queste proprietà rotazionali.

In questa eventualità si rilevererebbe che i fotoni presentano una rotazione in un determinato verso sull’asse selezionato nel 50% delle osservazioni. Più precisamente, gli spin dei due elettroni devono concordare nel 50% dei casi. Quindi, non si osserverebbe la diseguaglianza statistica di Bell.

– possibilità in disaccordo con la meccanica quantistica.

Nel corso del tragitto dal contenitore con gli atomi di calcio al rilevatore i fotoni hanno ciascuno intrinsecamente una specifica rotazione oraria o antioraria sui vari assi considerabili.

In questa eventualità, considerando che nell’esperimento esaminiamo per ogni fotone tre assi (asse 1, asse 2, asse 3), le diverse combinazioni di rotazione assiale, che i fotoni potrebbero possedere, sarebbero le seguenti:

Asse 1 Asse 2 Asse 3

Orario Orario Orario

Orario Orario Antiorario

Orario Antiorario Orario

Orario Antiorario Antiorario

Antiorario Orario Orario

Antiorario Orario Antiorario

Antiorario Antiorario Orario

Antiorario Antiorario Antiorario

 

Si potrebbe anche dire che in questo esperimento sono infine individuabili otto gruppi di fotoni, ciascuno caratterizzato da un definito programma di spin.

Asse 1 Asse 2 Asse 3 Gruppo

Orario Orario Orario                            a

Orario Orario Antiorario                     b

Orario Antiorario Orario                     c

Orario Antiorario Antiorario             d

Antiorario Orario Orario                    e

Antiorario Orario Antiorario             f

Antiorario Antiorario Orario             g

Antiorario Antiorario Antiorario      h

 

Le combinazioni degli assi registrabili, che possiamo scegliere sul rivelatore A e sul rivelatore B sono le seguenti:

Rivelatore A Rivelatore B

1 1

1 2

1 3

2 1

2 2

2 3

3 1

3 2

3 3

 

Consideriamo teoricamente il gruppo di elettroni c) dotati del programma “Orario (asse 1) – antiorario (asse 2) – orario (asse 3)” e valutiamo la corrispondenza tra le combinazioni degli assi di rotazione scelti sui due rivelatori e la situazione in cui i rivelatori registreranno la stessa direzione di rotazione dei fotoni opposti, appartenenti al gruppo c):

 

1 1 combinazione alla quale corrisponde la comune rotazione oraria

1 2

1 2

1 3 combinazione alla quale corrisponde la comune rotazione oraria

2 1

2 2 combinazione alla quale corrisponde la comune rotazione antioraria

2 3

3 1 combinazione alla quale corrisponde la comune rotazione oraria

3 2

3 3 combinazione alla quale corrisponde la comune rotazione oraria

 

Dunque, in questo gruppo di fotoni c), come nei gruppi di fotoni b), d), e), f), g) in 5 casi su 9, dunque in > 50% dei casi i rivelatori registrerebbero la combinazione di uno stesso verso di rotazione assiale delle coppie di particelle viaggianti in direzione opposta.

Questa osservazione non vale per i due gruppi a) e h), che presentano rispettivamente il programma orario – orario – orario e il programma antiorario – antiorario – antiorario. Essi sono comunque un ulteriore contributo per la soluzione del caso. Infatti si osserva che questi due gruppi aumentano ulteriormente la percentuale di accordo: tutte le combinazioni degli orientamenti degli assi sono associati a un comune verso di rotazione degli elettroni opposti di queste due famiglie.

Dunque, nonostante che per il principio di indeterminazione (di Heisenberg) non siamo in grado di misurare contemporaneamente il verso di rotazione su tre assi di una particella, con un esperimento su base statistica possiamo comunque comprendere se le particelle hanno specifici quadri di rotazione (oraria/oraria/antioraria, ecc) indipendenti dall’interazione con il rilevatore, pre-esistenti all’interazione (si veda sopra la seconda ipotesi), o se a causa della natura ondulatoria della realtà microscopica prima dell’interazione non esistono definite combinazioni di rotazione assiale (si veda la prima ipotesi).

Nell’esperimento di Aspect i dati raccolti evidenziarono che non erano > 50% i casi in cui era rispettata la combinazione di rotazione assiale in uno stesso verso tra le particelle che giungevano ai due rilevatori opposti. Quindi, le particelle non hanno un definito programma di rotazione prima dell’interazione con i rilevatori. Se lo avessero, i rilevatori registrerebbero in più del 50% dei casi (diseguaglianza statistica di Bell) la combinazione di uno stesso verso di rotazione assiale nelle coppie di particelle viaggianti in direzione opposta.

Altra osservazione: quando il settaggio degli apparecchi era identico, i due fotoni presentavano spin correlati. Considerando anche la precedente osservazione, questo significa che quando una delle due particelle è registrata dal rilevatore, essa acquisisce uno spin e simultaneamente anche l’altra particella acquisisce lo stesso spin.

In conclusione, era stata violata la disuguaglianza statistica di Bell, cioè quella condizione che Bell aveva evidenziato come necessaria per escludere la “non località”.

Riassumendo, si è evidenziato che:

– due particelle con una comune origine, viaggianti in direzioni opposte, sono correlate, pur essendo separate da uno spazio: se una è registrata, per esempio, nella rotazione su un asse in senso orario, l’altra è registrata sempre nella rotazione in senso orario sullo stesso asse (fenomeno dell’entanglement; correlazione quantistica). Sembrerebbe che le due particelle siano distinte, ma parti di un’unica entità fisica, che ne correla i comportamenti. Una misurazione su una particella influenza entrambe le particelle nello stesso momento.

– una particella si precisa con una determinata rotazione sull’asse scelto solo al momento dell’interazione con lo strumento di rilevazione.

 

I rilievi di questo esperimento sono dunque sorprendenti. Il fenomeno dell’entanglement non è mediato da un’informazione viaggiante nello spazio: nulla è più veloce della luce e in questo caso le due particelle “interagiscono” simultaneamente qualunque sia lo spazio che le separa. Per esempio, nel 1997 l’esperimento fu confermato con rilevatori distanziati di 11 Km. Non potendo essere implicata materia ed energia nella trasmissione di informazioni da una particella all’altra, si è pensato che alla base dell’istantaneo influsso di ogni cambiamento di una particella sulla particella gemella vi sia la propagazione del collasso della funzione d’onda dalla particella misurata per prima alla particella entangled. Ma questo fatto contrasta con la relatività ristretta, per la quale non vi può mai essere un punto di osservazione privilegiato. In altri termini, non si può mai stabilire in verità se giunga ai due rilevatori prima la particella di destra o quella di sinistra. Dipende dai punti di vista, che differiscono, se gli osservatori sono in movimento l’uno rispetto all’altro. In questa ottica l’ipotesi che l’informazione da una particella all’altra sia data dal collasso della funzione d’onda reggerebbe se il collasso avvenisse simultaneamente in tutto lo spazio. Questo implicherebbe che le misurazioni siano state effettuate simultaneamente, il che implica un unico sistema di riferimento, non ammesso dalla relatività ristretta. Dunque?

Sembrerebbe dunque che lo spazio non sia la dimensione in cui si colloca la realtà dell’entanglement. Vi è chi ipotizza che questo comportamento rifletta il fatto che al momento del Big bang tutto l’universo era concentrato in un punto infinitesimale, quindi vi sarebbe una proprietà che connette la materia e che esiste indipendentemente dallo spazio, elemento fisico che si è manifestato successivamente al Big Bang. Ma è solo un’ipotesi. Certo è che gli strumenti matematici più sofisticati non sono in grado di fornire un’ipotesi ragionevole sul fenomeno. Tra i vari commenti, merita di essere citato il seguente: “L’Universo è una rete di modelli di energia, nei quali nessun componente ha realtà indipendente dal tutto, osservatore compreso”.

L’entanglement è uno dei più profondi misteri che abbiamo in casa e che attendono una spiegazione, forse mai possibile…

 

Riferimenti

Bassi A. “50 anni di non località in meccanica quantistica: dal paradosso di EPR alle disuguaglianze di Bell e oltre.” Incontri di Fisica presso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Frascati, 2014.

Cox B, Forshaw J. “L’universo quantistico svelato” Hoepli, 2013.

Dante A. “La divina Commedia. Inferno”.

Greene B. “La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà” Einaudi, 2004.

Penrose R. La strada che porta alla realtà. Le leggi fondamentali dell’universo. BUR, 2005.

Rovelli C. “La realtà non è come ci appare” Raffaello Cortina Editore, 2014.

 

P.S. In campo matematico e fisico l’assoluta precisione terminologica e concettuale è un difficile obbiettivo anche per i professionisti del settore. Sarò perciò grato a coloro che mi segnalassero opportune rettifiche di questo lavoro.