La seguente riflessione era contenuta in una lettera, che inviai nel 2014 a un sindacalista medico. Egli aveva sollevato il problema di un’insufficiente considerazione della meritocrazia negli ambienti ospedalieri. Questa fu la mia risposta, che ora riattualizzo per il pubblico.
“(…) Nel corso della recente riunione ci hai manifestato la volontà di sostenere il valore della meritocrazia e ora ci inviti a esprimere i nostri pareri. (…)
(…) Solo ciò che è scritto può passare sotto il fuoco dell’analisi critica, al fine di individuarne punti di forza e debolezze. Infatti, se gli scripta manent, le parole passano e residua un generico, politicante messaggio di “Forza, meritocrazia!” o “Avanti meritocrazia!”, che non può incidere nel modo più efficace nella complessità delle organizzazioni sociali.
Ho sempre avuto a cuore la nostra professione e in alcune occasioni ho inviato riflessioni a Istituzioni, come il Ministero della Salute o l’Ordine del Medici. Qualche tempo fa ho inviato una breve riflessione alla CIMO e qui la riprendo con articolato sviluppo, avendo per tema il merito.
La riflessione prendeva spunto da un’articolo di Cassi, presidente della CIMO, intitolato “Ritorniamo al dottore” (Il medico ospedaliero e del territorio n° 4/2013). Cassi riproponeva l’idea che la carriera del medico ospedaliero dovesse prevedere necessariamente un percorso a scatti, nella convinzione che l’appiattimento fosse solo fonte di frustrazione e disimpegno. E che la “carriera dovesse essere costellata da meccanismi selettivi di valutazione, di merito e quindi di premio”. La preoccupazione del sindacalista deriva probabilmente dalla convinzione che in assenza di scatti di carriera e di riconoscimenti economici fondati sul merito si verifichi un appiattimento professionale e conseguentemente una demotivazione e un disimpegno lavorativo.
Ho allora fatto notare che la nostra realtà professionale è fortunatamente in progressivo miglioramento; di conseguenza, nel tempo si avvertirà sempre più iniqua l’attribuzione di incarichi con trattamenti economici differenziati. Per esempio, attualmente, per motivi economici, gli incarichi di Struttura semplice attribuibili sono sicuramente inferiori al numero dei medici che potrebbero meritarli.
Ed ecco allora che si presenta la parola chiave di questa riflessione: il “merito”.
Alla domanda: “Cos’è il merito?” e “Cos’è meritocrazia?”, quale risposta daremmo?
Posso testimoniarti che, quando nel 2001 sono entrato in servizio nell’ospedale di Mestre, il mio impegno poco è servito per avere adeguati riconoscimenti e l’anzianità di altri colleghi è sempre stata anteposta alle mie qualità professionali che ritenevo meritevoli di essere incentivate. Ma, se mettevo in discussione la correttezza di privilegiare l’anzianità di servizio nell’attribuzione di responsabilità professionali, si poteva osservare un fatto interessante: i superiori erano pronti a dimostrarti che qualche collega più giovane o di pari anzianità poteva essere più meritevole di te, che protestavi perché non erano riconosciuti i tuoi risultati e le tue proposte. In che modo? Assegnandogli qualche ricompensa che a te era invece negata, pur esprimendo un’indiscutibile professionalità. In questo modo si dimostrava una verità: l’anzianità di servizio è un dato certo, il merito è un’entità che richiede criteri condivisi per la sua attribuzione. Poiché non tutti coloro che hanno il potere di riconoscere i meriti sono onesti e disinteressati, il criterio dell’anzianità è stato finora il migliore criterio obbiettivo per l’attribuzione di riconoscimenti professionali ed economici. Ma non deve essere sempre e comunque così!
Da questo esempio possiamo dunque comprendere che il termine “meritocrazia” non può descrivere adeguatamente una precisa situazione organizzativa desiderabile da tutti noi, se non ci mettiamo d’accordo sulla definizione e sui fondamenti del merito.
Quindi, definiamo innanzitutto il “merito”. Esso è il riconoscimento di determinate qualità e di determinati risultati professionali. Con questa definizione appare chiaro che non possiamo impostare un’organizzazione sul merito; dobbiamo piuttosto identificare quali qualità e quali risultati sono meritevoli per il nostro impegno nell’attività lavorativa. Ed anche chi ha il compito di definirli.
Il compito non può che essere nostro. “Criteri di qualità” che fossero disossati da ogni valore etico e che fossero fondati, per esempio, esclusivamente sul valore economico potrebbero forse essere da noi accettati come criteri di riferimento per il nostro merito? Penso che la Qualità del vero medico consista nell’intenzione, nella motivazione e nell’impegno a prevenire e a curare le malattie con le migliori conoscenze e con i migliori mezzi possibili nel contesto di un sereno e rispettoso rapporto di fiducia con il paziente. Questo deve essere il valore sovra-ordinato che dobbiamo difendere e imporre in ogni obiettivo aziendale che ci renda meritevoli nel perseguirlo.
Scopo del buon sindacalista medico è di incentivare l’espressione di questo valore negli obbiettivi aziendali. L’organizzazione deve essere in primo luogo dominata dalla qualità di questo valore, mentre il merito è un riconoscimento del suo valore.
Dunque, importante compito del sindacato medico dovrebbe essere di pretendere la discussione degli obiettivi aziendali con l’amministrazione e con la Regione, per controbilanciare con i valori etici della professione i valori economici sostenuti dalla componente amministrativa della realtà sanitaria. Gli obiettivi di budget dovrebbero perciò essere sostituiti dagli “Obiettivi di Qualità”.
Dunque, per esempio: non solo attribuire valore al numero di interventi chirurgici eseguiti in un anno per motivi economico-gestionali, ma soprattutto valorizzare la loro qualità in termini di appropriatezza di indicazione e in termini di incidenza di complicanze a breve e a lungo termine.
Il merito deve emergere in questo contesto qualitocratico, al quale contribuiscano equipe professionali dirette da direttori che sappiano promuovere l’addestramento, la collaborazione, la discussione dei casi clinici, l’integrazione tra impegno di equipe e impegno personalizzato anche tramite l’attribuzioni di obbiettivi personali, che non escludano comunque la reciproca collaborazione per il loro conseguimento, essendo connessi a comuni obbiettivi di budget. Si potrebbe parlare di comunitarismo dirigenziale.
Laura Bertolè Viale, magistrato al vertice della Procura generale di Milano ha lasciato a L’Espresso la seguente riflessione sul suo ambiente lavorativo, che ci consente di chiarire questa visione organizzativa:
“Il protagonismo (dei magistrati) nel 1992 – 1994 era sano, ma ha generato mostri. Da un lato sono nati i magistrati combattenti, dall’altro sono cresciuti gli ignavi e i menefreghisti, quelli che dicono: ma perché devo ammazzarmi di lavoro e rischiare critiche? L’equivoco di fondo forse è credere che occorra cercare il consenso del popolo. Se mai c’è stato, ora è scomparso. In crisi è entrato soprattutto quello che chiamerei il modello Tarantola, presidente del processo Cusani: il magistrato tranquillo, serio, riservato, che sa essere bravo sempre, anche nei casi più umili.”
Questa riflessione si collega a una mia perplessità sull’idea che, per contrastare la demotivazione professionale, i medici debbano essere inseriti in un competitivo percorso di carriera. Si tratta di capire se la motivazione, lo stimolo “elettrizzante” deve consistere nei soldi da intascare, nella fama acquisita tra i pazienti e nella posizione funzionale assegnata dall’azienda o non piuttosto nella soddisfazione per i risultati del proprio lavoro: la salute restituita ai sofferenti o perlomeno un miglioramento della loro qualità di vita.
Ogni motivazione diversa da questa non può che risolversi in un fuoco di paglia, come osservato da Viale nella professione di Magistrato: solo chi sa essere bravo sempre, anche nei casi più umili (certamente non solo questi!) può essere esempio di buona qualità professionale e ricavarne di conseguenza un merito. Il merito ricercato come fine della propria attività produce mostri.
Come prima ho accennato, il numero di incarichi di Struttura semplice è sempre stato inferiore a quanti avrebbero potuto meritarli e oggi è stato ulteriormente ridotto con una decisione che appare irreversibile. Si dovrebbero dunque ridefinire gli incarichi dirigenziali, differenziandoli solo per tematiche, con un unico livello di retribuzione correlato tuttavia alla percentuale di conseguimento degli obbiettivi; e si dovrebbe definire la modalità per consentire la conduzione anche autonoma di progetti da parte di dipendenti particolarmente motivati che propongano innovazioni coerenti con gli obbiettivi aziendali. La possibilità di avere autorizzazione e mezzi per esprimere questi progetti sarebbe già una ricompensa e potrebbe tradursi successivamente in ulteriori risultati professionali per questi professionisti “fuoriserie” e in acquisizione di prestigio da parte dell’azienda sanitaria.
Dobbiamo opporci a coloro che vorrebbero svuotare gli incarichi di ogni valore per trasformarci in semplici impiegati e appiattire le retribuzioni. La volontà di abolire gli studi medici nei nuovi ospedali è inequivocabile segno che vi è da tempo questa volontà.
Vi è peraltro tra noi, medici dirigenti, chi vorrebbe che rinunciassimo a un inquadramento dirigenziale, per non essere ricattabili. Ma la mia idea è che questa evenienza può essere contrastata definendo chiaramente, sostenendo e difendendo la nostra specificità dirigenziale. In effetti, non siamo dirigenti puri, ma impiegati con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e con l’attribuzione di una specificità dirigenziale che ci consente di lavorare anche per obbiettivi con un valore aggiunto nel nostro stipendio. Questo può essere stimolante e può evitare l’appiattimento e la demotivazione della routine quotidiana. Non dobbiamo invece accettare di essere considerati veri dirigenti nella stretta definizione della qualifica. Un vero medico dirigente dovrebbe infatti perseguire gli obbiettivi aziendali di derivazione amministrativa “con tutta l’anima”. Ma, se questi obbiettivi entrassero in conflitto con la tutela della salute del paziente, un vero medico dirigente sarebbe costretto a dimettersi. La difesa della nostra peculiarità dirigenziale deve dunque essere una questione prioritaria per i sindacati dei medici ospedalieri.
Nel citato articolo della CIMO si ravvisava nella graduazione della carriera l’elemento per rendere “meritocratica” la nostra attività. In realtà, una professione impegnativa e stressante come quella del medico ospedaliero non ha necessità di carriera e di una competizione nella quale il paziente può diventare la vittima.
Questo fatto è piuttosto evidente nelle realtà chirurgiche, che sono state caratterizzate a lungo da un’organizzazione gerarchica in cui il vero professionista era il “primario”, depositario delle conoscenze tecnico-scientifiche. Vi erano poi i modesti “assistenti”, spesso privi di una formazione specialistica universitaria post-laurea; e nel mezzo gli “aiuti”, professionalmente più avanzati degli assistenti. Racconti di medici anziani ci regalano una visione poco nobile di questo “quadretto organizzativo”: assistenti praticoni senza molte pretese, se non il guadagno ottenuto ubbidendo nelle loro umili mansioni alle indicazioni del primario o dell’aiuto, fossero state anche dannose per il paziente, e quel che è peggio in certi casi fornite per verificare l’ubbidienza alla propria persona, più che per errore professionale del superiore; assistenti e aiuti arrivisti, motivati spesso da diabolica competizione (sicuramente non vantaggiosa per il paziente), in lotta rispettivamente per il posto di “aiuto” o di ”primario”. E infine il “primario”: punto di riferimento irrinunciabile per il paziente e depositario della tecnica chirurgica e delle responsabilità professionali; con onori, ma anche con oneri, in alcune realtà ospedaliere disposto a fare dello studio la sua abitazione, per essere subito in sala operatoria in qualunque intervento chirurgico urgente capitasse di notte o di giorno. Il primario era il punto forte e il punto debole di un’organizzazione, che in sua assenza sarebbe entrata (ed entrava veramente) in profonda crisi.
Purtroppo vi sono ancora antiquati personaggi che dimostrano di non comprendere il percorso professionale dei medici ospedalieri, persino riproponendo la vetusta carriera Assistente – Aiuto – Primario. Sperimentalmente, questo tipo di carriera non sembra aver incentivato il merito del buon medico che esprime la vera e unica Qualità, prevenendo e curando le malattie con le migliori conoscenze e con i migliori mezzi possibili nel contesto di un sereno e rispettoso rapporto di fiducia con il paziente. Questo inquadramento in differenti figure funzionali ha dimostrato di incentivare il carrierismo, aspetto diabolico della nostra professione, poiché il merito viene assegnato nella competizione tra colleghi, ridotti al rango di evoluti gladiatori. Inoltre, una simile organizzazione non sembra rispettare una categoria di professionisti sempre più allineata su una sufficiente capacità professionale, che non può perciò prevedere una forzata differenziazione in livelli funzionali.”