bambina_malatadi Enrico Ganz

 

Riporto alcune osservazioni sull’uso della morfina in ambito ospedaliero. Esse furono inviate per lettera all’Ordine del Medici della provincia di Venezia nel 2012.

 

“Egregi colleghi,

penso che sia giunto il momento di iniziare a considerare criticamente l’incentivo all’uso di morfina nei reparti ospedalieri. Proporrò dunque alcune mie personali osservazioni, che possono essere utilizzate per una più articolata riflessione sul tema.

Nel 2007 in una lettura magistrale il prof. Veronesi richiamò l’attenzione sull’efficacia della morfina nel trattamento del dolore. Riferendoci all’articolo del giornale LA STAMPA (allegato), egli avrebbe affermato che la morfina è adeguata non solo nel dolore neoplastico, ma anche nelle malattie meno severe, come per esempio una distorsione di caviglia. E aggiunse: “Non si può trasferire l’angoscia legata alla parola “morfina” alla necessità di usare questa medicina per liberare una persona dal dolore.” 

Tale affermazione potrebbe essere intesa in due sensi:

# Se la morfina fosse di uso comune, ogni persona, dunque anche il malato oncologico, considererebbe questo farmaco al pari di un comune antidolorifico, senza dunque provare l’angoscia di un farmaco che nella collettività è associato a malattie incurabili. Dunque è auspicabile che la morfina sia utilizzata anche nelle malattie banali.

Oppure:

# l’uso della morfina è associato all’idea di assunzione di stupefacenti per evasione dalla realtà. Dunque il paziente terminale avverte la sensazione che lo si voglia “drogare” per togliergli la coscienza del suo progressivo decadimento fisico. Se la morfina fosse utilizzata anche nelle malattie banali, il malato oncologico l’assumerebbe per il trattamento del dolore senza più provare questa spiacevole sensazione.

Qualunque sia l’interpretazione, l’affermazione è eticamente davvero discutibile. E’ evidente infatti che per ottenere l’effetto di considerare questo farmaco al pari di un qualunque antidolorifico, si dovrebbe diffonderne l’uso anche a livello domiciliare. Ma è forse proponibile che, per aiutare psicologicamente i malati terminali, noi dobbiamo soffrire per gli effetti collaterali della morfina, evitabili con un’ampia gamma di farmaci alternativi per il trattamento di dolori di lieve – media entità?

La lettura in questione non è del tutto recente, risalendo al 2007, ma rivela una volontà – probabilmente non solo personale del professor Veronesi – di riabilitare la morfina nel trattamento del dolore in ambiente ospedaliero, forse anche per l’attenzione su questo sintomo stimolata dal progetto “Ospedale senza dolore”; e forse anche per i contenuti costi rispetto ad antidolorifici di più recente sintesi.

Tuttavia è opportuno osservare che nella realtà ospedaliera:

# la morfina interferisce pericolosamente nella valutazione semeiologica dei pazienti gestiti in Pronto Soccorso: è tipico il caso del paziente trattato con morfina per un forte dolore addominale, il quale si presenta paucisintomatico o asintomatico alla successiva valutazione del consulente chirurgo, pur presentando una patologia di rilievo (infarto intestinale, perforazione retroperitoneale, ecc) non sempre chiaramente documentabile con gli accertamenti di base (esami emato-chimici, RX addome).

Dunque, utilizzare la morfina (e qualunque altro energico antidolorifico) in un Pronto Soccorso prima di una chiara diagnosi significa aumentare il rischio di errore, alterando o eliminando il dolore addominale, che è uno dei dati fondamentali in una valutazione semeiologica.

Ne possono esserne vittime i pazienti, ma anche i medici: ricordo il recente caso di un grave ritardo diagnostico di cui è stato vittima un medico, trattatosi per sua decisione con dosi di morfina adeguate a eliminare un dolore correlato a una severa patologia. In conseguenza di questa scelta egli dovette essere sottoposto a un lungo trattamento farmacologico in regime di ricovero ospedaliero.

Per quanto riguarda i reparti chirurgici, la morfina dovrebbe essere indicata solo in caso di dolore severo non trattabile con farmaci alternativi, consentendone esclusivamente la somministrazione peridurale. La morfina infatti è un farmaco piuttosto pericoloso, se somministrata ev o im, come si potrebbe evidenziare, se vi fosse la volontà di raccogliere un’attenta casistica dei suoi effetti collaterali in pazienti (per lo più anziani, ma non solo) sottoposti a recente intervento chirurgico in ambito addominale.

Riporto un caso significativo tratto dalla mia esperienza, in un periodo in cui tra gli obbiettivi di budget vi era l’incentivo ad utilizzare la morfina.

Paziente trattato con morfina in terza giornata post-operatoria. Vengo chiamato dall’infermiere alle ore 2.00, perchè il paziente accusa meteorismo, singhiozzo e dolorabilità addominale (alla palpazione). Il paziente presenta uno sguardo perso nel vuoto ed è molto rallentato. All’introduzione di un sondino naso-gastrico il paziente ha un cospicuo regurgito di secreto biliare (risulterà ammontare a 1 litro). Al primo apparire del secreto biliare in bocca metto rapidamente il paziente in posizione di sicurezza, ruotandolo sul fianco destro, con la bocca verso il pavimento, dato che egli non collabora. Dopo l’introduzione del sondino naso-gastrico si completa lo svuotamento dello stomaco e si ottiene una risoluzione della sintomatologia.

Sono qui evidenti gli effetti indesiderati della morfina somministrata per via im o ev: rallentamento psico-motorio e depressione della motilità gastro-intestinale, già transitoriamente compromessa dall’intervento chirurgico in ambito addominale. Un mix ottimale per condurre al decesso un paziente per polmonite ab ingestis conseguente a regurgito biliare. In questo caso l’evento fu evitato.

Per ovvie ulteriori ragioni è anche evidente che la morfina non deve essere inserita in terapia “al bisogno”, dato che un dolore intenso richiede un’attenta valutazione medica prima della sua somministrazione da parte dell’infermiere.

Infine un’ultima osservazione correlata alla morfina e al trattamento (pretestuoso) del dolore.

Riporto in proposito quanto chiestomi da una parente per la nonna, debilitata da una sindrome da malassorbimento, ma motivata a vivere fino al punto di essere disposta al trasferimento dall’U.O. di Medicina all’U.O. di Chirurgia per un intervento di ricanalizzazione del quale le era stato prospettato l’incerto esito:

“Potrebbe darle un’adeguata dose di morfina per non farla soffrire?”

Dopo aver escluso che il dolore fosse significativo, utilizzando la scala 1 – 10, cercai di chiarire cosa si desiderasse da me. E infine compresi che mi si chiedeva di porre termine alla vita della paziente contro la sua stessa volontà. Il “per non farla soffrire” significava più che una semplice eliminazione del dolore. Si consideri che in questa azione non sono ravvisabili i criteri dell'”eutanasia”, ma quelli dell’omicidio.

Ancora più sconcertante fu il comportamento della nipote dopo questa richiesta: amorevolmente si accostò alla nonna per farle deglutire qualche sorso d’acqua, sostenendole il capo. Come dire: “Tu, medico, dovresti a mio parere compiere l’esecuzione, mentre lascia a me rappresentare la figura dell’angelo custode.”

Non ritenni opportuno dare ascolto alla parente.

Penso che la registrazione/segnalazione di questi episodi potrebbe essere utile per fini statistici: la richiesta di porre termine alla vita di parenti in gravi condizioni può essere un importante indice di degrado dei valori sociali e delle qualità genetiche e/o educative dei cittadini: in particolare si rivela un indebolimento dei legami familiari e l’incapacità individuale di tollerare la propria sofferenza indotta dall’altrui disagio e di elaborarla in forme di impegno assistenziale.

 

In conclusione, alla luce di queste evidenze è importante sottolineare:

# la delicatezza che impone l’utilizzo della morfina; le linee guida ospedaliere ne devono tenere conto;

# l’opportunità di una riflessione sull’eutanasia come indicatore dell’evoluzione dell’etica sociale, considerandone in particolare il significato improprio attribuito a questo termine in ambito popolare;

# l’ambito di competenza del medico, ribadendo che per definizione e per formazione storica egli ha avuto, ha e dovrà avere il dovere di prevenire, diagnosticare e curare le malattie, ma mai dovrà accettare che la sua professione si estenda oltre questi impegni.

Cordiali saluti”