implan10di Enrico Ganz

 

Offro al pubblico, che accede a questo blog, una riflessione sulla formazione chirurgica in Italia. Questo testo fu inviato per lettera al Ministero della Sanità nel 2007.

La mia impressione è che oggi sia apprezzabile un discreto miglioramento della professionalità chirurgica, per quanto si possa tuttora documentare la tendenza da parte delle Direzioni ospedaliere a ostacolare nell’espressione dell’attività operatoria alcuni pur motivati e competenti medici. Dunque, nel settore chirurgico formazione e rispetto professionale sono due temi attuali.

 

“(…) tutti noi possiamo notare che non infrequentemente negli ultimi anni è stata data notizia di casi di malasanità verificatisi negli ambienti chirurgici.

E’ ormai tempo che l’aspetto scandalistico di questi articoli ceda il passo ad un’analisi accurata sul fenomeno della malasanità in Chirurgia, perché vi possa essere un miglioramento della qualità delle prestazioni chirurgiche.

E’ opportuno premettere che non sempre i casi di malasanità pubblicizzati si verificano per una scarsa qualità professionale dei chirurghi o per un’inadeguata organizzazione sanitaria. Un certo numero di errori diagnostici o terapeutici è inevitabile in un’attività che talvolta presenta complesse situazioni fuori dall’ordinaria esperienza. E talora è l’imprevedibile risposta biologica di un organismo a determinare l’insuccesso di un intervento scelto rispettando le linee guida definite dall’esperienza internazionale ed eseguito in modo tecnicamente corretto. Queste considerazioni non devono tuttavia allontanarci dall’obbiettivo di migliorare la formazione dei chirurghi italiani; obbiettivo strategico per sconfiggere il fenomeno della malasanità.

Migliorare la formazione significa in particolare migliorare l’insegnamento anatomico e tecnico-operatorio, di fatto piuttosto marginale nei corsi universitari di specializzazione, nonostante che il decreto ministeriale del 11 maggio 1995 suggerisca l’importanza dello studio anatomico: “Lo specializzando deve essere in grado di acquisire la base di conoscenza anatomo-chirurgica… per affrontare anche in prima persona la pratica esecuzione degli atti operatori…”.

Ma a questo obbiettivo certo non giova la legislazione di Polizia Mortuaria, che pone ampi limiti all’utilizzo dei cadaveri per finalità didattiche, tenendo valide le disposizioni del decreto regio n°. 1592 del 31/8/1933. L’Università ha peraltro sempre taciuto su questa questione.

Il secondo trascurato aspetto della formazione chirurgica è la partecipazione degli specializzandi all’attività operatoria. Il succitato DM indica che “per essere ammesso all’esame finale di diploma lo specializzando deve dimostrare d’aver raggiunto una completa preparazione professionale specifica, basata sulla dimostrazione d’aver personalmente eseguito atti medici specialistici: almeno 50 interventi di alta chirurgia, dei quali almeno il 15% condotti come primo operatore; almeno 120 interventi di media chirurgia, dei quali almeno il 20% condotti come primo operatore; almeno 250 interventi di piccola chirurgia, dei quali almeno il 40% condotti come primo operatore…”. In realtà un’inchiesta evidenzierebbe che questi indirizzi non sono rispettati: gli specializzandi non solo non operano sufficientemente, ma neppure frequentano assiduamente le sedute operatorie, attività essenziale per memorizzare le procedure tecnico-operatorie. Di conseguenza la selezione del personale chirurgico ospedaliero non è effettuabile in base ad una valutazione universitaria fondata sulla reale attitudine ed abilità tecnico-operatoria. Non vi può essere perciò garanzia che i medici assunti in un’unità operativa chirurgica sapranno sviluppare una professionalità tale da fronteggiare in modo adeguato la varietà di situazioni tecnico-operatorie che in tale ambiente si presentano.

In questa situazione non vorremmo che ci fosse un preciso disegno, più che una carenza dell’organizzazione didattica: un sistema fondato sulla buona professionalità di tutti i neospecialisti non sarebbe conveniente all’Università, poiché, assunti negli ospedali periferici, tali professionisti non avrebbero presto altra necessità che di un direttore con l’incarico di coordinare la loro attività; per trovare un dirigente all’altezza di tale compito l’Università non sarebbe facilmente interpellata, compromettendosi così il tradizionale potere derivante dalla collocazione di suoi professionisti di fiducia ai vertici delle gerarchie ospedaliere in qualità di unici depositari della professionalità tecnico-operatoria. In altri termini la riconoscenza di un chirurgo ad un ambiente universitario che gli ha consentito di accedere a un posto dirigenziale consegnandogli un’esclusiva ed escludente competenza tecnico-operatoria come premio di fedele impegno nel suo ambito verrebbe a mancare se la stessa competenza fosse fornita in giovane età a tutti gli specializzandi per obbligo didattico.

Si può così osservare che i chirurghi più giovani – non molti, ma esistenti – che iniziano l’attività ospedaliera dopo aver saputo con intraprendenza completare in modo adeguato la formazione tecnica al di fuori della pista universitaria, collaborando di propria iniziativa con gli anatomo-patologi nelle sale anatomiche e impegnando molte ore libere nel partecipare assiduamente alle sedute operatorie, al fine di memorizzare i procedimenti operatori, sono infine inseriti in un sistema gerarchico in cui l’attività operatoria è esercitata solo dal direttore o da chirurghi a cui dal direttore tale attività è concessa secondo i diritti dell’anzianità tradizionalmente protetti nel sistema della Pubblica Amministrazione. Diritti che consentono a questi medici, a lungo impediti nell’attività operatoria, non solo di svolgere tale attività, ma anche di precluderla – con l’avallo delle amministrazioni ospedaliere – a qualunque più giovane chirurgo in grado di svolgerla. Si perpetua così un certo tipo di scuola in cui servilismo, attendismo ed anzianità vincono sul dinamismo della capacità professionale, rendendo ben accetta in ambito ospedaliero la deficitaria formazione professionale fornita dall’Università ai giovani specialisti in Chirurgia.

Questo fatto ci porta a pensare che sul piano didattico l’inserimento degli specializzandi nelle strutture del SSN per ovviare al gap formativo dell’Università, come recentemente proposto in vari articoli da Sindacati e da Ordini dei Medici, non consentirebbe di posizionare sicuramente questi futuri professionisti in un luogo dove è garantito un apprendistato migliore di quello universitario, perlomeno fin quando non si formeranno ambienti ospedalieri dove l’attività operatoria non sia avvertita dai chirurghi come un’attività qualificante in quanto privilegio, cioè qualificante solo nella misura in cui ne viene escluso l’accesso al maggior numero di colleghi. In realtà tale attività deve essere sentita qualificante per sè e qualificante al pari dell’attività diagnostica e dell’attività assistenziale. Questo è fondamentale presupposto per il rispetto professionale negli ambienti chirurgici ed è il terreno ideologico in cui può maturare adeguatamente la professionalità degli specializzandi ed esprimersi al meglio la qualità assistenziale al malato.

Sottolineo questo secondo punto: la qualità dell’attività operatoria non può che essere fluttuante se in un ospedale solo uno o pochi chirurghi sono autorizzati a svolgerla, non potendo essi essere sempre disponibili. “Quando attività strategiche per la struttura ruotano attorno ad un singolo professionista un qualsiasi motivo che facesse venir meno la sua presenza (ferie, malattia, trasferimento, pensionamento) produrrebbe una grave crisi nel processo sanitario (E. Reginato, Il demansionamento della professione medica nel processo di aziendalizzazione). Tale considerazione non è teorica, ma trova riscontro nei nostri ospedali.

Equidistribuire l’attività operatoria in qualità di primo operatore ad un personale omogeneamente qualificato sarà un obbiettivo imprescindibile per ottenere risultati standardizzati di qualità in ambito ospedaliero ed è la premessa per creare un ambiente didatticamente accogliente per gli specializzandi. Obbiettivo che potrebbe essere rapidamente perseguibile anche nelle realtà chirurgiche professionalmente meno avanzate, se le amministrazioni affidassero ai direttori delle unità operative di Chirurgia o a consulenti l’incarico prioritario di istruire nelle procedure operatorie quel personale chirurgico che, pur non ancora dotato di completa autonomia operatoria, sia professionalmente motivato, consentendo in breve la formazione di medici in grado di avere piena autonomia in qualità di primo operatore nell’ambito delle procedure chirurgiche che il servizio deve fornire all’utenza, con a capo un dirigente non più “primario”, inteso come gestore dell’attività operatoria, ma direttore, che coordina l’attività e che garantisce correttezza delle indicazioni operatorie ed equa distribuzione dei ruoli del personale nelle attività chirurgiche. Si deve inoltre considerare quanto importante sia superare i limiti imposti dal DR n.° 1592 del 31 agosto 1933 sull’utilizzo dei cadaveri per finalità didattiche, perchè l’Università non possa più sottrarsi ad un più adeguato impegno formativo. Molto si è fatto per sensibilizzare la popolazione alla donazione degli organi, ancora più importante sarebbe diffondere una cultura della concessione del cadavere da parte dei parenti per finalità didattiche, al fine di poter migliorare le prestazioni sanitare in ambito chirurgico.

Se vogliamo una chirurgia qualificata nel nostro Paese dovremo analizzare attentamente e cominciare a modificare vari aspetti della sua organizzazione e della formazione didattica. E’ un impegno di opportunità per i fruitori del sistema sanitario ed è una scelta etica per gli amministratori della sanità. Innovazione non significa solo ammodernamento delle strutture ospedaliere e delle tecnologie diagnostiche, terapeutiche e informatiche, ma anche diffusione di una nuova concezione del lavoro chirurgico, superando tradizioni e interessi, nonchè un’inappropriata visione aziendale della realtà ospedaliera.”