di Enrico Ganz
Sosta nella chiesa di Falcade Alto
Sono giunto in questa antica chiesa, dedicata a San Sebastiano, salendo dal fondovalle per comoda strada fino alla frazione di Villotta e da qui, lento pede, proseguendo sul più inclinato pendio di una mulattiera, costeggiata su un lato da noccioli e sull’altro lato aperta verso la “piana” di Falcade, tra il Civetta e i picchi del Focobon, estreme propaggini nord orientali delle Pale di San Martino. In questa chiesa ho sfogliato l’ultimo numero de “Il Focolare”, semestrale bollettino parrocchiale di Falcade e, tornato a casa, ho letto con attenzione un breve racconto, contenuto nella sezione riservata ai giovani. Si può richiederne visione via mail nel sito della parrocchia di Falcade. E’ intitolato “Il vento della misericordia”.
In sintesi, esso presenta al lettore un uomo di fede mussulmana, che percorre una via, apparentemente indifferente a quanto lo circonda, ma improvvisamente colto da indignazione per le persecuzioni religiose, giustificate dai fondamentalisti islamici.
Menziono questo breve racconto, ritenendolo di un certo interesse, anche considerando la giovane età dell’autrice, Alessandra Murer: quindici anni, dalle informazioni che ho ottenuto.
In primo luogo, ho notato con piacere lo sforzo dell’autrice, in buona parte riuscito, nel coniugare accuratezza e complessità della costruzione sintattica, riscontro sempre più raro nei testi dei nostri tempi, in cui l’uso di sms e di brevi commenti in Internet probabilmente contribuisce alla semplificazione infantile, se non alla disgregazione, del periodare.
In secondo luogo, è di un certo interesse il fatto che nel racconto compaiano in forma embrionale, quali archetipi di una giovane mente ispirata dalla fede, simbolismi e temi che anche Gogol, Dostoevskij e Chesterton hanno espresso, certo in modo particolarmente brillante e in un’età più matura.
Chi conosce Chesterton, ricorderà la bella descrizione della giornata ventosa, che dà inizio al romanzo “Le avventure di un uomo vivo”. Un vento che preannuncia la comparsa del signor Smith, l’uomo che porta “un vento di novità”, laddove tutto appare immerso nel grigiore dell’immutabile quotidiano. Nel racconto della giovane autrice l’impercettibile movimento dell’aria ha analogamente una valenza simbolica, rappresentando l’impercettibile sensibilità umanitaria del protagonista, che misteriosamente incontra un momento di radicale maturazione interiore, “esplodendo” in un vento interiore di misericordia. Misericordia per il “colpevole”, ovvero per il cristiano umiliato e offeso dalla persecuzione religiosa.
Ed eccoci al tema della compassione per l’umiliato e offeso, tanto importante nell’opera di Dostoevskij, il quale su questo aspetto, agli inizi della sua professione, dovette essere piuttosto impressionato dal pregevole racconto “Il cappotto” di Gogol.
Ultimo rilievo: questo racconto rivela un buon potere immaginativo, anche se notiamo che esso rimane imprigionato, compresso nel ristretto spazio delle due pagine in cui è risolto l’episodio narrato. Un racconto che a mio parere rimane comunque una promettente prova di scrittura. E, ricordando il vento che vi soffia al termine, potremmo sperare che preluda in futuro a un più intenso “vento” narrativo.
Guardandosi attorno nella piazza di questa frazione di Falcade, si nota la bella casa rustica che fu dello scultore Augusto Murer; vi è inoltre un bar, una fontanella, un tabià e infine due piccole vetrate, tramite le quali si può sbirciare sui più recenti dipinti del pittore e illustratore Dunio Piccolin. Se vi è l’occasione, ovvero se l’esposizione è aperta, si ha una migliore visione entrando, e così ho fatto, conoscendo per la prima volta l’artista, del quale da molti anni avevo visto principalmente affreschi sui muri delle case, mentre i dipinti contenuti nel locale espositivo li avevo solo intravisti nel corso dei miei frequenti passaggi per la piazza, spinto lassù dal desiderio di percorrere le strade più solitarie e rustiche del paese. Alcune opere di Dunio sono reperibili in Internet, in numero sufficiente per rendersi conto che con inesauribile fantasia l’autore ripropone costantemente precise idee e sentimenti: il valore delle tradizioni locali, della semplice vita contadina, dell’infanzia. Ma quest’anno ho notato che nelle sue opere più recenti, perlomeno quelle dal 2013 ad oggi, i disegni si sono arricchiti di significati morali in forma allegorica, significati non sempre facilmente intuibili, ma chiaramente spiegati da Dunio al visitatore. Esemplificativo è il dipinto “La polenta”, che il lettore può vedere accanto al titolo di questo paragrafo. Si può notare una grande polenta, circondata dai tradizionali rappresentanti della società, quali il sindaco, il cardinale, il carabiniere, il postino, oltre a semplici paesani, a loro volta avvolti dalle spire di vapore, che si innalzano dalla gialla e profumata cupola. Questa polenta potrebbe ricordarci che a Falcade, nel 2014, è stata effettivamente cucinata la polenta più grande del mondo; ma Dunio tiene a sottolineare che il dipinto è precedente a quell’evento, perciò ininfluente per l’ideazione dell’opera. In realtà, come mi ha spiegato, la polenta è simbolo degli interessi che da sempre sono spartiti nelle alte sfere della società, dove idealmente si dovrebbero invece assumere prioritariamente gli impegni civili con motivazioni umanitarie.
Sulla sinistra della scena gli faccio notare un personaggio, che, unico, non sembra agognare alla prelibata pietanza. Chi sarà mai?
Egli è il vero artista, mi spiega, dedito all’arte, non al business.
L’introduzione di significati allegorici, la denuncia dei mali degli uomini, tra cui superficialità culturale, avidità, maldicenza, implicano una rottura dell’angelica serenità, emanata dai precedenti dipinti, il che può dispiacere, constatando tuttavia che era anche tempo di esplorare nuove possibilità, per seguire la vocazione di artista, il quale differisce dall’artigiano per essere non solo modellatore, ma anche ricercatore di nuove espressioni estetiche e di nuovi modi per comunicare significati morali.
Sosta nella casa – studio del maestro Franco Murer
E’ per me una sosta tradizionale, da effettuarsi almeno una volta all’anno, per salutare il maestro e sua moglie. Colloquio familiare, quindi riservato. Mi sono aggiornato sulle sue ultime attività, tra le quali segnalo una mostra itinerante in Grecia, visualizzabile in Internet. Nel corso del colloquio ho notato un dipinto, avente come soggetto il palazzo Crotta De’ Manzoni di Agordo, e con piacere ho appreso che egli ha ripreso a dipingere, dopo un’intensa attività di scultura in bronzo. La capacità di coniugare armonia di segno e di colore è, infatti, una qualità speciale di questo artista; il bronzo non può rivelarla. Ma Franco Murer è comunque in grado di compensare l’assenza di colori nel bronzo, plasmando questo materiale in forme pregevoli, come potrà constatare chi abbia visto, per esempio, le belle formelle delle stazioni di Via Crucis lungo la via Cavallera di Canale d’Agordo o le statue sui temi “Maternità” e “San Martino e il Povero”. Senza dimenticare il ciclo dedicato a San Giuseppe, che dal 2010 dà significato alla centesima fontana dei Giardini del Vaticano; “un simbolo di riferimento per i valori dell’umiltà e della semplicità nel compiere ogni giorno la volontà di Dio”, come lo definì Papa Benedetto XVI.
Salutato il maestro, ho inboccato la stradina che conduce al sentiero del rifugio Mulaz, ne ho oltrepassato il bivio e dopo ripida salita mi sono fermato davanti ai grandi massi di un affluente del torrente Biois. Lì si poteva naufragare nel blu del cielo e nelle varie colorate tonalità dei vegetali e dei sassi. E vi era un’armonia di colori e di silenzio, che davvero nessun pittore avrebbe potuto parimenti renderla su una tela. Forse, per questo motivo nel grande dipinto “Le voci della montagna”, che si può osservare qui sopra in una foto purtroppo non ben definita, Franco Murer ha evocato piuttosto le voci del suo animo d’artista, risuonanti in questa bella, montuosa località.
Sosta al Giovedì della Biblioteca di Caviola
Sosta apparentemente insolita, considerando che, come ho rivelato, preferisco dirigermi verso le solitarie vie sopra Molino. Ma proprio percorrendo il contorto, dissecato alveo di un torrente primaverile, franante dal monte Tamèr, alla ricerca di qualche improbabile fossile o di un insolito minerale, mi sono chiesto quale mai fosse la stratigrafia della vallata. E, come se mi avesse udito uno di quei maghi della lampada, specializzati nell’esaudire desideri, il giorno seguente ho posato lo sguardo su un manifestino, che annunciava una serale lezione sulla geologia della valle del Biois nel paese di Caviola.
Così vi ho partecipato, ottenendo chiarimento su molte mie curiosità, che qui non sintetizzo, per non tediare il lettore che non avesse alcuna esigenza di conoscere la stratigrafia delle Dolomiti.
Piuttosto, è di particolare interesse, se non di utilità, conoscere alcune osservazioni del geologo relatore, dott. Vittorio Fenti, nel passato impegnato nella Protezione civile. Esse sono emerse nel corso della discussione finale su provocazione di un partecipante, che chiedeva ragione dei recenti disastri dell’edilizia in aree geologicamente instabili, ovvero soggette a frane e alluvioni. In estrema sintesi, la risposta è stata la seguente: in generale, non infrequentemente si tratta di casi in cui i geologi avevano individuato l’alto rischio dell’area. Ma queste aree comprendono terreni già classificati “edificabili”. Perciò, la consulenza del geologo suscita le proteste dei proprietari, che esercitano pressioni sull’amministrazione comunale, poiché poco gradiscono che i loro terreni siano pesantemente svalutati. Le pressioni possono essere sufficienti a convincere l’amministrazione comunale o regionale che è preferibile la pace con i proprietari, piuttosto che accogliere le istanze del geologo, il quale a sua volta, di conseguenza, riceverà pressioni per modificare la sua consulenza. Non accettare questa richiesta può significare per il geologo la perdita dell’incarico, consapevole che in sua sostituzione l’amministrazione troverà certamente qualche altro collega accondiscendente.
Non stento a credere al nostro geologo, che nel corso dell’incontro ha dimostrato elevata professionalità e infine autentico sdegno, mentre ci rivelava queste umane meschinità.
Del resto basta pensare a quanto accadde il 19 luglio 1966. Riporto la notizia da https://cronologia.leonardo.it/storia/a1966a.htm:
“19 LUGLIO 1966 – Il film di Franco Rosi, Mani sulla città, diventa una cruda realtà. La speculazione edilizia ha costruito affrettatamente senza tenere conto della natura del terreno, cinque quartieri nella città di Agrigento. Alle 4 del mattino una gigantesca frana spacca in due la collina e fa slittare a valle migliaia di abitazioni. Siamo andati oltre l’immaginazione del film di Rosi: 9970 persone rimarranno senza casa. Un inchiesta del governo appura che si erano costruiti più di 6000 vani senza una licenza. Per lo Stato uno scandalo politico, per la città i danni di decine di miliardi. L’intera popolazione (non vi fu neppure un morto nonostante alcuni palazzi letteralmente inghiottiti) deve la vita all’intuito di uno spazzino che si era accorto che metà città si stava spaccando in due, scivolando a valle. Diede l’allarme e la lentezza della frana permise a 50.000 persone di mettersi in salvo.
Un ingegnere, Rizzica, dieci anni prima lo aveva previsto, e non solo non lo avevano ascoltato, ma pochi giorni prima della frana, il consiglio comunale aveva approvato un piano di espansione edilizio proprio in Via Dante, dove appunto la città è sprofondata a valle.
“Una frana di vaste proporzioni interessa da stamane un quarto della città di Agrigento. Sono crollati due palazzi in costruzione. Gli abitanti hanno lasciato la zona trasferendosi in altri quartieri” (Com. Ansa,19 luglio, ore 09.35)“Agrigento. Il movimento franoso interessa i rioni Addolorata e Duomo, ma si è manifestato molto lentamente, per cui gli abitanti degli edifici che hanno riportato lesioni hanno potuto mettersi in salvo. Dopo i primi due edifici, altri due si sono aperti e parzialmente crollati” ( Ib. ore 15.52).”
Tornando a casa, più che alla composizione della valle del Biois, ho pensato alla qualità dell’umana natura. La stoffa è la medesima, che si tratti di geologi, di ingegneri, di avvocati, di medici, di operai … Diverse le professioni, ma simili i meccanismi perversi e simili le risposte dell’umana natura, per sopravvivere. Ricordiamo il caso esemplificativo della casa di cura Santa Rita di Milano, nella quale alcuni chirurghi effettuavano interventi più dannosi che utili, perché non rientranti nelle corrette indicazioni. Il motivo, soddisfare le esigenze dell’amministrazione.
Che gli amministrativi esercitino pressioni improprie sulle gerarchie sanitarie, per aumentare l’attività operatoria, non è una novità. Per il medico, ignorare questa esigenza amministrativa è lecito, quando non vi sono le condizioni cliniche e organizzative per soddisfarla. Ma non sempre è così, soprattutto se il gioco si fa pesante, con minacce di chiusura del reparto ospedaliero, di licenziamento del direttore, di perdita di incarichi di qualche prestigio, di trasferimenti … Come ho scritto, lo spirito del gioco della casa di cura Santa Rita si avvertiva altrove. Più grande la città e di conseguenza l’ospedale, maggiori sono gli interessi, maggiori le pressioni, più difficile la vita per chi vuole mantenersi fedele alla sua onesta natura. Costui deve essere un vero lottatore, adatto nel fisico e nella mente a sopportare la sofferenza di vivere la condizione dell’onestà, tanto fastidiosa per chi lo circonda, al contempo riuscendo a farsi rispettare e a difendere, nei limiti del possibile, la sua posizione e l’onorabilità del suo luogo di lavoro.
Quanto al motivo di porre come obbiettivo l’aumento dell’attività operatoria, dovrebbero spiegarcelo gli amministrativi delle ULSS. Ma possiamo ragionevolmente ipotizzare che sia in relazione a sgradevoli pressioni da loro stessi subite. E quale ne potrà mai essere la causa prima? Suppongo che essa risieda nella volontà della società; in coloro che tra noi non gradiscono pagare tasse elevate, per sostenere la Sanità, esigendo tuttavia di avere un servizio pubblico possibilmente gratuito.
Ma è un’ipotesi; attendo un giudizio più competente, magari da parte di un economista sanitario. Nel frattempo riporto un breve estratto del dott. Costantino Troise, sindacalista ANAAO: “Nelle aziende Sanitarie gli strumenti del tradizionale management d’impresa sono largamente risultati insufficienti nel garantire sia l’equilibrio economico, sia l’efficacia e la qualità della produzione clinica. Questa cultura e pratica organizzativo-gestionale non appare in grado di realizzare compiutamente l’orientamento delle attività cliniche all’efficacia, appropriatezza e qualità, oggi unanimamente riconosciute quali fattori determinanti non solo l’uso ottimale delle risorse, ma anche il valore etico e sociale dei sistemi posti a tutela della salute, tecnologicamente avanzati e politicamente ad impianto solidaristico. L’economista Richard Scase dell’Università di Kent invitava a ” (…) non sopravvalutare l’efficienza del sistema, che sembra aver preso il posto dell’efficacia (…), perché è la quantità che tende a sostituire la qualità.” (da Dirigenza Medica. Il mensile dell’ANAAO ASSOMED, 12/2013).
In conclusione, passeggiando per la valle del Biois, potrebbe persino capitarvi qualche incontro utile per porvi questioni più complesse della stratigrafia dolomitica.
Sosta finale in un giardino di via Focobon
La mia ultima tappa è in questo giardino, dove vi è un’aiuola, delimitata da blocchetti di travertino e coperta da ghiaia di roseo colore, sulla quale spuntano piante di Potentilla e di Ibisco siriaco. Vi sono anche altre piccole aiole con piante di menta, di mirtillo rosso, di lampone e di ribes. E poi vi è un bel masso di granito verde e bianco con cristalli che brillano al sole; panche in legno; un acero dall’enorme chioma ovale e alberi da frutto, tra i quali un susino e qualche melo Jakob Fischer. Questa varietà di melo, poco conosciuta, è stata di recente recensita da Slow Food, considerando che i suoi modesti frutteti, concentrati in Germania, si stanno ulteriormente riducendo, nonostante la buona qualità del frutto. Il melo capostipite fu scoperto nel 1903 dal contadino tedesco Jakob Fischer a Rottum, nell’area della Foresta Nera. Le mele Jakob Fischer furono commercializzate negli anni trenta, ma successivamente la loro scarsa conservabilità fece preferire altre varietà. In effetti, queste mele si conservano solo per un mese dopo la raccolta. Ma vi è un aspetto positivo: la raccolta è precoce, già alla fine di agosto, rendendo tale varietà interessante per gli ambienti montani, dove generalmente la maturazione dei frutti è piuttosto tardiva. La mela Jakob Fischer è nota anche come “Bella di Oberland” e in effetti è esteticamente gradevole: gialla e rossa, leggermente schiacciata, di medie dimensioni. E ha pure un aroma gradevole, fruttato, con acidità lieve ed equilibrata dolcezza.
Insomma, dopo aver considerato le miserie umane, con maggior desiderio ci si può rifugiare tra questi alberi, mangiare una buona mela e naufragare nei colori delle pietre e delle piante. E infine perdersi, come mi è accaduto, in riflessioni sull’ “o piccolo” e sul resto di Peano nella formula di Taylor, poiché la matematica rivela un barlume dell’universale architettura, che ha un più ampio respiro della storia umana e ne trascende le miserie evocate in questa passeggiata. Che purtroppo non sono neppure quelle peggiori.
Ciao Enrico, ho letto con piacere il Blogger che ci hai dedicato…e per ciò che mi riguarda mi ci ritrovo nelle tue considerazioni. Saluti e a presto. Dunio